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Piazza XVII Settembre => Fantasia... racconti, prose, storie => Topic aperto da: ramingo - 11 Maggio 2007, 18:11:43

Titolo: Racconti
Inserito da: ramingo - 11 Maggio 2007, 18:11:43
per rompere il ghiaccio allego alla presente un mio racconto scritto un pò di tempo fa.
per il momento non detto alcuna regola per le vostre "pubblicazioni" ...  applicherei un approccio work in progress.
adesso però tocca a voi!


INTERVALLO

E lo sapevo che dovevo pulire il mouse prima di accendere il computer. Rimarrò fulminata o peggio, il mio amato/odiato strumento di torture e frustrazioni giornaliere, la mia Echo, un nome un programma, subirà le solite trasformazioni irreversibili dovute al folletto che abita nella tastiera, all’elfo del registro, al trojan di turno che ho scaricato con qualche @-mail, al nano della scheda madre. Tutte cose strane che periodicamente mi impegnano in lunghe telefonate con il Capo Master e che spesso si concludono con l’intervento di rattoppo del tecnico di casa, per tutti il Tecnoco. La penultima volta che ho tentato di dar vita ad Echo non si accendeva il monitor: mi son detta “Che ci sia qualche spiritello non ancora catalogato anche in questa appendice di Echo?”. Poi gira e volta, con la cornetta del telefono già in mano, non vedo che c’era la presa tirata? Ma allora ditemelo: c’è un simpatico nanetto di verde vestito che la sera non sa che fare ed organizza rave sotto la scrivania, ciò spiegherebbe anche tutto l’accumulo di schifose sozzure che vi raccolgono nel giro di una notte, oppure è Frankie che, con le sue zampine di coniglio, lascia i segni del suo inavvertibile passaggio, ricordandomi che tutto è precario, anche la mia sanità mentale.  - È inutile che mi stai alle spalle con quel ghigno stampato in faccia. Non ti vedo! - . L’ultima volta che ho spinto il tasto on mi è invece apparso uno di quei messaggi che ti fanno raggelare il sangue: scritte bianche su sfondo azzurro. Di solito non portano buone notizie. Stavolta parlano di un’installazione di un sw e\o hw che ha provocato un problema che ha indotto l’arresto di windows per impedire danni al computer. Bella storia: di quale nuova installazione stiamo parlando? Ho resettato. Adesso rifunziona, cioè per lo meno windows parte. Peccato che dopo un po’ appare un altro messaggio lapidario che dice “Attenzione il sistema è stato ripristinato in seguito ad un errore grave” e che mi ricorda che tutto è precario, anche l’equilibrio di Echo. Ho masterizzato il masterizzabile e continuo come se niente fosse. - E smettila di sbellicarti dalle risate. Io almeno ancora sono viva –. Ma guarda come cavolo è fatto un mouse. E quanto sudicio sudiciume si forma su rotelle e rotelline!
È rientrato qualcuno. Strano, non riconosco i rumori che distinguono il rientro di ciascuna delle mie coinquiline: rumore di chiavi nello svuota tasche per la Dharma, l’aprirsi della porta in fondo al corridoio per la Taylor, passo felpato e tintinnio di accessori fashion per Shela. C’è qualcosa che mi inquieta. La porta d’ingresso non viene richiusa. Rimango in apnea aguzzando l’udito. Sembro il gatto quando punta la tana della talpa.
Ma vedi che sfortuna proprio adesso doveva sfilarsi una delle zozze rotelline. Ohi ohi!? E chi la ritrova sul parquet? Eccomi in ginocchio sotto la scrivania. Da gatto a talpa nel giro di un secondo.
Qualcuno apre la porta della stanza. “ Là, meno male che sei tu! Mi aiuti che ho perso una rotella interna del mouse che più minuscola non potevano farla. Là? LaaaAAAHHH?!!??”. Una figura che sembra quella di un uomo avanza verso di me, barcollando. La sua pelle è livida, la bocca aperta. Sbava. È molto lento e impacciato nei movimenti. Meno male, perché io continuo ad urlare e rincattucciarmi sotto la scrivania. Sono invasa da una paura incontrollabile. Possibile che sia succedendo veramente? Non c’è dubbio: si tratta di un mostro, uno zombie, un non-morto, un orrore vomitato dai racconti di Lovecraft che tengo sul comodino. La sua lentezza è un’agonia, così non mi raggiungerà presto. Forse non mi troverà nemmeno. Non dimostra dimestichezza con il suo corpo. Deve essere un mostro da poco: non deve avere ancora ucciso nessuno. Sa solo di avere fame e che qualcosa nella stanza in cui è entrato lo sazierà. Bene, organizziamoci. Se scatto come un puma di montagna sulla sinistra riesco di certo a mettere il tavolo fra me e lui. E se tutto ciò che ho letto e visto sull’orrore che mi sta davanti, basterà fracassargli la testa per renderlo di nuovo un morto. Lo spingerò contro il muro usando il tavolo. Sì, ce la faccio. È un fantoccio cieco. Non ha tanta forza. I suoi occhi iniettati di sangue sembrano quelli di chi ha pianto tanto. Non mi fa più paura come prima. Però tremo ancora. Mi fa quasi pena. È a terra che, ripiegato su se stesso, si contorce come quello strano moscerino che ho trovato nel lavandino di cucina l’altro giorno e che ho salvato, tirandolo fuori dalla goccia d’acqua in cui stava annegando. L’ho osservato a lungo sul davanzale della finestra su cui l’ho posato: con movimenti inconsulti si metteva zampe in aria, si arrotolava su se stesso e poi passava affannosamente le zampe posteriori, più lunghe, sulle ali. Poi si rimetteva in piedi e cercava di spiccare il volo. Ma le ali ancora appiccicate sul suo corpo glielo impedivano. E allora ricominciava a ripulirsi. Ma lo faceva in modo così convulso che ho provato dolore per la sua inconsapevolezza. Deve provare lo stesso idiota dolore il tizio rantolante sul parquet della mia stanza. Prendo una sedia e gliela rompo in testa. I suoi movimenti si fermano di colpo. Gli occhi si spalancano oltre misura. Un liquido vischioso si spande silenziosamente sul pavimento. Mi torna in mente l’immagine dei polli sgozzati e mi rendo conto che un’arma appuntita e pesante, magari di acciaio, mi avrebbe fatto comodo. Sto ancora cercando di riprendere possesso dei miei pensieri e del mio corpo, quando un’altra presenza entra nella stanza. Stavolta sono più pronta: l’adrenalina scorre nelle mie vene. Facendo attenzione alla bocca che provoca l’infezione “zombizzante”, almeno così mi pare di ricordare, un morso e divento una di loro, due morsi o più e divento il loro pasto, la tiro dal braccio che stende davanti a se, proprio come se non vedesse, mentre l’altro lo usa per appoggiarsi al muro, proprio come se avesse difficoltà a stare in equilibrio sulle gambe. Mi chiudo la porta dietro le spalle e con furia cerco un’arma. Ah come vorrei avere l’ascia con cui spacca la legna l’Antoinette. È leggera, maneggevole e affilata. Ma in un appartamento che posso trovare di altrettanto allettante? Un coltello per il pane? Troppo flessibile. Un mestolo d’acciaio? Troppo leggero. Il coltello per le bistecche? Troppo corto di lama e di manico.  La mezzaluna? E chi l’ha mai avuta? L’amica è più sveglia del previsto. Sta per aprire la porta. Ancora un po’ e ci riesce. Le sbatto la porta contro con tutta la rabbia che mi è salita fino agli occhi perché non ho trovato un’arma decente. Poi me la richiudo dietro. Pensa, pensa, pensa. Cerca, cerca, cerca. Il matterello? Meglio di niente. Posso provarlo subito sul compare che fa capolino dall’ingresso. Un colpo teso e… vai! Funziona, ma non bene. Mi serve qualcosa di appuntito perché la calotta cranica è molliccia e le cose di legno, tipo la gamba della sedia e il matterello, tendono leggermente a rimbalzare e poi rimangono invischiate in quello che doveva essere il cervello. Ancora la testarda donnina riapre la porta. Stavolta la termino! “Donnina aspetta lì che adesso arrivo! Fammi cercare qualcosa di adatto. Guarda che non mi scappi!”. Pensa, guarda, cerca, pensa, guarda, cerca. Cerca, cerca ah-ah! Adesso si che ci siamo! Il martello: pesante perché un signor martello di una volta, piatto da una parte, bello appuntito dall’altra, vediamo che effetto ha! Riposa brutta testarda donnina! Chiudo la porta d’ingresso. Ho bisogno di fare il punto della situazione. Non è possibile, ma credo ci sia in atto una zombificazione. I tre “amici”, che spurgano a terra i loro liquidi umorali interni e quelli celebrali, non sono miei conoscenti. Non sono nemmeno i condomini dello stabile. Chi sono? non credo siano i soli. Temo si tratti di una zombificazione di massa. Solo lui può illuminarmi. Devo raggiungerlo immediatamente.
L’appartamento è in ordine. È tutto pulito e luminoso. Sfortunatamente all’ingresso l’inferriata non si chiude, sembra forzata. Sarebbe stato utile in caso di visite non gradite. In effetti, ora che ci penso, il fatto che l’ingresso sia preceduto da un pre-ingresso blindato, non mi sembra più un vezzo architettonico: sembra voluto proprio per fronteggiare una situazione come quella che mi si è presentata poco fa. Avanzo cautamente, stringendo il martello tra le mani. La stanza da pranzo è candida, sul tavolo c’è un tavolo con rose bianche. La luce e il tepore del giorno primaverile irrompono dalle finestre poste sulla parete alla mia destra. Per il dolore che mi genera la vista del salotto avvolto dalla penombra, mi dirigo verso la porta alla mia sinistra, una pupilla nera in tanto chiarore: un contrasto angoscioso. Finalmente trovo la sua canuta madre seduta nella semioscurità. “Dov’è lui?”, le chiedo portandomi davanti la poltrona dove sta seduta dando le spalle alla porta. Vedo, con dispiacere, che la signora di nero vestita si stropiccia le mani, piagnucolando tra sé e sé. “Lui non c’è”, dice con voce flebile. “Ma sta bene”. Pensa dunque che io sia venuta ad appurare se lui sta bene. Mi parla senza alzare lo sguardo. Mi parla come se… probabilmente è successo l’irreparabile. “È uscito”. È in casa spero soltanto che sia morto e non che… . “Non torna presto”. Ritorno sui miei passi e ripassando dalla sala da pranzo mi dirigo verso la porta della zona notte. Urto il tavolo e il vaso cade a terra. Si frantuma. Un corpo giace bocconi nel bagno. È il suo. Lo rigiro e due occhi rossi mi fissano. “Sarò uno di loro tra poco. Fuggi”. Il martello mi cade di mano mentre, fuori di senno, corro verso l’uscita. Peccato che l’unica via d’uscita sia un ascensore, un ascensore che ci mette troppo ad arrivare. FINE?
Titolo: Racconti
Inserito da: dark_lady - 12 Maggio 2007, 00:43:14
brava rami molto bello complimenti, sei in gamba....io nn riuscirei a scrivere dei racconti boh nn so perchè
Titolo: Racconti
Inserito da: ramingo - 15 Maggio 2007, 18:24:43
solo per dark riporto una filastrocca che tanto le è piaciuta...

A come Armatura
Bi come Bravura
Ci come Canaglia che con me viene in questura.
Di come Diamante
E come Elefante
Effe sei un Furfante che in galera finirà!
Per Gi c’è tanta Gente
Per Acca non c’è niente
Per I..mmediatamente alla Elle passerò.
Elle L’animale
Emme Meno male
Enne è Natale e tanti doni io avrò!
per O c’è l’Orco
per Pi c’è Pinocchio
per Q Questo marmocchio che stasera mangerò.
Erre come Roma
Esse some Strade,
di Tutte quelle strade che a Roma porteranno.
Uh che bella storia!
Vu Vi ho raccontato
Zeta ho tanto zonno
Ed a letto me ne andrò…
sotto le coperte
fanno le capriole
tutte le parole
ed un’altra storia inventerò.

e con l'occasione saluto le suore e le maestre della scuola materna.

 
Titolo: Racconti
Inserito da: dark_lady - 15 Maggio 2007, 19:08:35
è TROPPO FORTE RAMI!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
 
Titolo: Racconti
Inserito da: Massimiliano - 16 Maggio 2007, 00:25:36
Bella ramì! :lol:

Però un consiglio, quando scrivi qualche storiella/filastrocca o altro, apri sempre una nuova discussione che così hanno più visibilità ;)

Cmq si forte!! :D
Titolo: Racconti
Inserito da: dark_lady - 16 Maggio 2007, 01:07:09
Hai visto massi che bella?????

l'ha riportata sul forum x me!!!!!!


che forte!!!!
Titolo: Racconti
Inserito da: ramingo - 18 Maggio 2007, 18:59:47
MAX c'è un detto: chi fa da sè fa per tre.
io faccio per tre...
ad aspettare te mi vengono i capelli bianchi!!!
 :ph34r:
Titolo: Racconti
Inserito da: Salvatore - 05 Settembre 2007, 10:35:31
Quanto dobbiamo aspettare per una nuova storia??????? :huh:  :huh:  :huh:  :huh:

Ramì ancora sei in vacanza????? :D  :D
Titolo: Racconti
Inserito da: ramingo - 06 Settembre 2007, 12:31:51
agli ordini badrone.
beccati sto' racconto a tema... avrei preferito pubblicarlo più in là nel tempo per non rischiare di portare sf**a a casuccia.

incrocio le dita mentre faccio copia e incolla...
Titolo: Racconti
Inserito da: ramingo - 06 Settembre 2007, 12:35:49
Fiamme

Agosto, una giornata di caldo afoso e di vento di scirocco.

Solo il fresco del salotto, trattenuto dagli spessi muri, permetteva ad Emma di lavorare alla sua tesi. C’era voluto più tempo del previsto per raccogliere tutte le informazioni e i dati, ancora di più per poi organizzarli in una forma consona alla tesi che dovevano appunto dimostrare.

Erano già le tre del pomeriggio.

Una foschia innaturale si presentò alla finestra. Emma distolse lo sguardo dal monitor meccanicamente, mentre ancora le sue dita digitavano le lettere dell’ultima parola che stava scrivendo. Poi ripose lo sguardo sull’asta che intermittente attendeva di diventare una virgola. Era soprappensiero, ma il suo istinto era stato in grado di percepire il pericolo. Quando però venne disturbata da un pungente odore si alzò e uscì di casa.

Una danza di cenere la accolse poco gioiosamente. Il boschetto vicino casa bruciava.

Nel silenzio.

Improvvisamente il vento si alzò impetuoso: le fiamme alte e rumorose avvilupparono un canneto e minacciose resero l’aria irrespirabile.

Il crepitio divenne suono di morte e distruzione.

Perché? Perché questo gesto? Era l’unica cosa che Emma riusciva a pensare.
Da giorni piccoli focolai erano stati appiccati nelle zone incolte, dove sterpaglie e vecchi alberi si trasformavano velocemente in fumo, cenere e carbone. Era il rituale a cui i contadini non sapevano rinunciare: l’intenzione primaria era quella di pulire i limiti dei propri possedimenti, fare pulizia; quella secondaria era creare disagi e magari danni all’appezzamento vicino, del resto se l’erba del vicino è secca è meglio che bruci. Per alcuni era questo l’intento primario: perciò non necessariamente aveva terreni da mantenere puliti chi decideva di accendere un fuocherello al limitare della strada o meglio ancora in montagna, preferibilmente lontano dal proprio domicilio, in una zona poco frequentata, in una zona dove poi sarebbero cresciuti i funghi alla prima pioggia, o l’origano la primavera successiva. Luoghi dove per almeno quattro anni le mucche non avrebbero potuto ritrovare il loro pascolo abituale. Rituali tribali. Rituali simili a quelli dei gatti che marcano il loro territorio con l’urina; simili e non uguali solo perchè il liquido usato per affermare la propria esistenza è infiammabile.

Giorgio, il papà di Emma, temeva potesse accadere anche all’appezzamento di terreno che attorniava la loro isolata casa: erano già tre anni che lo avevano risparmiato. Troppi. Ma quest’anno aveva cercato di evitarlo: all’imbrunire e all’alba prendeva il suo fuoristrada e percorreva il tratto di strada che lo costeggiava a settentrione. Un errore. A chi tre anni prima riuscì a bruciargli il capanno, l’inquietudine di Giorgio sembrò proprio un invito a compiere lo stesso gesto. Così prese l’abitudine di seguirne i movimenti e aspettò un giorno arso e ventoso di fine agosto per compiere la bravata. Più danni avrebbero fatto le fiamme, più gustosi sarebbero stati i bocconi che avrebbe ingurgitato a cena. Stavolta gli era andata di lusso: poteva gustare cene su cene con lo stesso dolce sapore. Stavolta a bruciare non fu solo il capanno ma anche la casa. Stavolta non solo cespugli, arbusti, sterpaglie divennero cenere e fumo. Anche Emma, dopo essere rimasta soffocata dal fumo, venne raggiunta dalle fiamme che l’avvilupparono. Divenne cenere che il suo assassino respirò la sera a cena, cenere che spinta dal vento si depositò su ogni povera cosa del suo assassino, cenere che si mescolò alla pioggia che, troppo tardi, cadde abbondante e che pietosamente restituì ai vivi quella che ora non lo era più. Sergio non ne rimase sconvolto: che cosa ne poteva sapere lui che il vento avrebbe cambiato direzione? Peggio per Giorgio che non aveva zappato l’uliveto! Invece di girare con il fuoristrada poteva pure utilizzare la benzina e la forza per farlo invece che spenderle in modo infruttuoso! Del resto i soldi non gli mancavano: poteva chiamarlo e lui una giornata di lavoro non gliela rifiutava mica. Ed Emma? E chi la conosceva? Avrebbe fatto meglio a rimanere dove stava! Era una tipa strana: sempre sui libri, mai che andasse a far visita a nessuno. Sempre chiusa in casa, mai una volta a far i lavori nei campi, mai alla festa del patrono. Eppure i nonni si che ne erano grandi lavoratori! Era sempre pallida! Un’incapace: non era riuscita nemmeno a scappare davanti al fuoco! Se non moriva così sarebbe morta presto lo stesso. E buona notte ai sonatori. Sergio s’addormentò tranquillo: quella notte sognò di vendemmiare. In fondo la sua coscienza era pulita.

Emma non morì in pace. Si rese conto di tutto: soffrì atrocemente quando bruciò viva e si maledisse maledicendo il suo assassino. La sua presenza avvelenò il terreno che era bruciato con lei. Lì non vi crebbe più niente: solo un’erba malata copriva il suolo ma non uniformemente, solo a chiazze. La rabbia consumava il suo spirito come le fiamme avevano fatto con il suo corpo. Ma il tempo passò lo stesso, gli anni si susseguirono uno dopo l’altro. La casa di Giorgio non venne più ricostruita dopo l’incidente. Egli preferì andare via: voleva solo dimenticare. Dimenticare si, ma non Emma: voleva solo dimenticare che quel posto aveva ucciso la sua bambina, il posto che riteneva potesse proteggerla. Si trasferì in città, in un piccolo appartamento anonimo.
Sergio campò ottant’anni senza un acciacco o un dispiacere. Suo figlio si sposò e continuò a lavorare i campi insieme a lui. Lo rese nonno. Ai suoi nipoti raccontava spesso del perché la casa a fianco era diroccata. Colpa del fuoco che tanti anni prima aveva bruciato mezza collina. Rosa ascoltava volentieri il nonno. D’estate le piaceva dormire nel sottotetto da dove poteva vedere la casa maledetta. Era una ragazzina forte e sicura di sé. Badava alla casa e le piaceva prendersi cura della capretta dal cui latte era capace di fare il formaggio che tanto piaceva al nonno. Era brava anche a scuola, ma l’estate le permetteva di fare quello cui propendeva naturalmente.

Agosto, una giornata di caldo afoso e di vento di scirocco.

Rosa lavava i panni alla fonte. Era un refrigerio poter stare ammollo nell’acqua fredda che sgorgava potente dalla roccia. Da sempre avevano la lavatrice a casa, ma ogni tanto faceva contenta la nonna e le lavava i panni con il sapone che la stessa faceva in casa con la cenere. Rosa era sempre pronta a fare le cose che le chiedevano, con la capacità di farle sempre nel migliori dei modi. Spesso era lei a prendere le decisioni più importanti in famiglia.

Erano già le tre del pomeriggio.

Una foschia innaturale si presentò tra i rami degli alberi alle spalle della fonte. Rosa distolse lo sguardo dai panni che stava lavando meccanicamente, mentre ancora le sue mani torcevano una tovaglia. Poi ripose lo sguardo sull’acqua che scrosciante riempiva la vasca in cemento dove anche i tovaglioli aspettavano di essere sciacquati. Era soprappensiero, ma il suo istinto era stato in grado di percepire il pericolo. Quando però venne disturbata da un pungente odore si diresse risoluta verso casa.

Una danza di cenere l’avvolse poco gioiosamente. Il boschetto vicino casa bruciava.

Nel silenzio.

Improvvisamente il vento si alzò impetuoso: le fiamme alte e rumorose avvilupparono un canneto e minacciose resero l’aria irrespirabile.

Il crepitio divenne suono di morte e distruzione.

Sergio si svegliò di soprassalto dal sonno che ne ridestava le forze ogni pomeriggio d’estate. Era Rosa che lo chiamava: nonno sveglia! Emma è venuta a prenderci. Ma egli non vide altro che fiamme.

 
Titolo: Racconti
Inserito da: ramingo - 06 Settembre 2007, 12:36:46
:ph34r:  
Titolo: Racconti
Inserito da: Salvatore - 11 Settembre 2007, 20:55:12
Hai mai pensato di scrivere sceneggiature per Films Holliwoodiani?????

 :D  :lol:  B)  :rolleyes:  ;)
Titolo: Racconti
Inserito da: Massimiliano - 21 Settembre 2007, 18:08:51
Azz bellaaa!!!!!!! dagli un titolo e mettila in un nuovo post dai! è un peccato lasciare sto racconto tra i commenti di un altro :P
Titolo: Racconti
Inserito da: ramingo - 22 Settembre 2007, 20:15:08
dato che lo stress mi rende produttiva a mille, ho pronto un altro racconto dedicato a chi pensa che talvolta la propria compagna di vita e/o zita, se può, ti affossa...

PS: stavolta c'è la morale,  chi la trova è bravo.
Titolo: Racconti
Inserito da: ramingo - 22 Settembre 2007, 20:16:29
SAREBBE STATO
Sarebbe stato l’ennesimo anniversario passato nella banalità di regali scelti con poca cura, gesti forzati e parole ipocrite. Tuttavia non potevano ignorarlo. Ancora una volta lui non sarebbe riuscito a sostituire il solito mazzo di fiori con un pensiero meno insignificante, mentre lei non avrebbe saputo far altro che organizzare un dopocena “speciale”. Lei questa volta manifestò un’ispirazione diversa generata da un pensiero bislacco, fu come dominata da un’idea che la rese di buon umore fin dal giorno prima.
La loro era una storia come tante altre, con fasi alterne di liti e riconciliazioni. Ma da due anni, forse tre, qualcosa di strisciante e velenoso si era insinuato nella loro vita: silenziosa e appestante la quotidianità aveva preso il sopravvento. Non erano più due individui capaci di coltivare interessi con cui arricchire la vita comune, non avevano più obiettivi da raggiungere insieme. Avevano perso ogni entusiasmo, sfiniti dalla necessità di dover soddisfare le esigenze immediate, giornaliere. Ormai vivevano lui per lavoro, lei per il volontariato. Ogni mattino si rivestivano delle divise imposte dai loro ruoli e si annientavano. Non affrontavano da tempo un discorso insieme, serio o banale che fosse. In realtà non avevano nulla da dirsi, impegnati com’erano a focalizzare la loro attenzione sugli impegni abituali che scandivano il ritmo delle loro giornate. In questo erano uguali. La cosa peggiore era che non davano importanza a questa situazione di stallo; erano indifferenti l’uno all’altra. Non esistevano più e non lo sapevano.
O meglio, lui non lo sapeva; lei, invece, lo aveva scoperto da poco.
Per un colpo di vento la tenda aveva fatto cadere, rompendone il vetro, la cornice con la foto del loro viaggio in Scozia.  Nel raccogliere i cocci lei rimase folgorata: si ricordò della promessa che aveva fatto a se stessa  quando decisero di convivere. Non avrebbe permesso che la sua vita futura assomigliasse a quella di sua madre. Eppure, ora, si trovava in una situazione simile: viveva, inosservata, nel silenzio. Cambiava il fatto che non era stata consumata dal forte carattere del suo compagno, ma, comunque, era stata anch’essa trasportata lontano dalle sue ambizioni. Forse era anche peggio. Aveva dimenticato chi era e perché aveva deciso di abbandonare l’università e di seguirlo, inconsapevole, nella nuova città. Si era abituata a vivere in un ambiente asettico, privo di forti emozioni, dove la meccanicità dei doveri quotidiani le aveva fatto dimenticare di essere viva. La sua fu una riflessione improvvisa e purificatrice.
Il giorno arrivò come ogni altro.
Il caffè caldo e fumante lo aspettava in cucina. A differenza delle altre mattine però c’era anche una fetta di torta e una spremuta d’arancia, il tutto accompagnato da un messaggio stretto in un nastro di raso bianco. Lo lesse distrattamente sorseggiando il liquido nero. Un sorriso gli si stampò in faccia. Per un attimo i suoi occhi splendettero. Lei lo osservava, non vista, compiaciuta dell’effetto ottenuto ed aspettò un po’ prima di apparirgli radiosa nel suo vestito giallo. Per una strana alchimia quella mattina si guardavano come se si scoprissero piacevolmente curiosi dei pensieri l’uno dell’altra e si sentirono come rigenerati da un comune senso di interesse per la persona che li fissava negli occhi e che si nascondeva sotto i depositi di polverosi e anonimi ieri. Misteriosa creatura protetta da un banale involucro. Scorza opaca, custode di una polpa sconosciuta: forse amara, forse dolce, forse insipida. Durò solo fin a quando lui, dopo aver visto l’ora con la coda dell’occhio, si alzò e, sfiorandole il braccio con un gesto goffo, indice della poca complicità fra i due, infilò frettolosamente la giacca e con un “ciao, a stasera” scomparve dietro la porta d’ingresso. Lei, ancora rapita dall’intensità del risultato ottenuto col suo primo piccolo gesto, non rispose nemmeno, proiettata com’era nella visualizzazione del suo progetto. Non le serviva poi tanto. A pranzo non si sarebbero visti; a cena sarebbero stati, come ogni anno, da Orazio. Dunque doveva solo preparare l’occorrente per  rendere diverso il loro rientro. Innanzitutto serviva  ghiaccio, una bottiglia del suo liquore preferito, candele, l’arma , asciugamani puliti...
La notte arrivò come ogni altra.
Le rose rosse: magnifiche. La cena ottima, la conversazione pure.  Lei trasalì un pò quando lui le chiese di andare via. Già! La promessa di una serata diversa, la  promessa contenuta nel messaggio del mattino. Arrivati a casa lui si liberò subito della cravatta per poi scivolare nella cabina armadio e cambiarsi, lei accese le candele e riempì i bicchieri. Controllò che nella vasca il ghiaccio non si fosse sciolto e si sedette compiaciuta della sua efficienza. Lui, inconsapevole e rilassato, nella sua vestaglia orientaleggiante bevve e bevve. E più beveva e più  il suo chiacchiericcio diventava fitto e piacevolmente insensato. Lei all’improvviso si alzò di scatto per prendere qualcosa dal tavolino. Gli si avvicinò sorridente e flessuosa e, con un rapido gesto, gli conficcò una scheggia di vetro nel fianco sinistro. Tutto avvenne in silenzio. Soffocante. Un fiotto di sangue vischioso e di un bel rosso cupo fuggiva dalla ferita profonda. Lui la guardava impaurito ed attonito mentre si accasciava sul pavimento. Non avvertiva dolore; era intorpidito e rallentato nei movimenti: colpa dell’antidolorifico aggiunto all’alcool. Lei, flemmatica, gli si inginocchiò accanto e accarezzandogli la testa, con lo sguardo perso nel nulla, dopo averlo imbavagliato con la cravatta, iniziò a parlare: ”Non voglio che il mio agire resti per te oscuro. E’ il regalo più grande che potevo fare a noi due.” Nel frattempo estrasse con atto deciso il coccio dal fianco e prese a tamponare lo squarcio con gli asciugamani puliti che aveva scelto nel pomeriggio. Erano bianchi e il sangue, che lentamente li impregnava, creava una macchia sempre più grande in cui lei rivedeva, come su di uno schermo, i momenti più intensi della loro storia. “Ora ti lascerò dissanguare lentamente: ti lascerò morire senza alcun dolore. Quando sarà troppo tardi chiamerò il 118 e dirò che mentre facevo la doccia sei caduto rovinosamente sul tavolino su cui tenevamo le foto. Probabilmente il fatto che tu abbia preso un antidolorifico nonostante l’assunzione abbondante di alcol giustificherà l’incidente domestico. Il mio goffo tentativo di aiutarti togliendo la scheggia dalla ferita, sebbene elemento determinante la tua più veloce dipartita, un errore dettato dal panico.” Lui era immobile: la guardava mentre amare lacrime gli solcavano il viso. Forse era solo un incubo. Forse l’inconscia consapevolezza di essersi allontanato da lei, di averla dimenticata, lo strano biglietto del mattino, o semplicemente la crema di whisky dopo cena gli avevano fatto elaborare uno scenario onirico, violento e delirante, per la serata del loro anniversario, ma adesso si sarebbe risvegliato tra le sue braccia e avrebbero riso insieme dello strano sogno. Invece era sì tra le sue braccia e lei in effetti sorrideva ma il suo fianco sinistro era lacerato e il suo sangue cominciava ad inzuppare il tappeto. Le sue lacrime si fecero ancora più amare. In fondo non era colpa sua se la realtà aveva sostituito desideri e sogni adolescenziali. Certo avrebbe potuto non imboccare le strade che aveva percorso da solo e che lo avevano portato a desiderare obiettivi che non includevano le esigenze di lei. Forse avrebbe dovuto risvegliarsi dal torpore in cui si era rifugiato da tempo, scrollarsi di dosso l’alibi del lavoro gratificante, alibi che gli permetteva di dimenticarla e di condurre una vita parallela a quella che aveva scelto di vivere con lei; alibi che giustificava il fatto di non essersi accorto della  follia che, senza fretta, si era impossessata di lei giorno dopo giorno, mese dopo mese. F o r s e...
L’atto istintivo di stringere gli occhi sotto quel sole accecante gli faceva assumere un’espressione così buffa tanto che lei, guardandolo, non smetteva di ridere. Era stata una bella idea andare al lago quel giorno, avevano ritrovato la sintonia di un tempo. Solo gli dava fastidio quell’umido sotto la schiena e quella luce in viso. Avrebbe voluto alzarsi ma non poteva perché lei gli fermava la testa. “Eonai, eonai, eo…” farfugliava non riuscendo a ben articolare l’unica preghiera che gli saliva alle labbra: perdonami. Delirava.
Ora non era più in salotto, era nella vasca da bagno ricoperto di ghiaccio. Lei, vedendolo di nuovo cosciente, riprese a parlare: “Ancora un po’ e per te sarebbe stato troppo tardi. Spero tu apprezzerai quanto ho fatto per te per questo nostro anniversario. Ti ho regalato qualcosa di prezioso: la consapevolezza e la voglia di vivere.”  
Un’ambulanza squarcia con la sua sirena il silenzio di una notte come tante altre. Emma meccanicamente ripete come in trance: “Bevo il tuo sangue,\ spezzo le tue membra una a una.\ E resto vegliando \ per anni nella selva \ le tue ossa, la cenere, \ immobile, lontano \ dall’odio e dalla collera, \ disarmato nella tua morte, \ attraversato dalle liane, \ immobile nella pioggia, \ sentinella implacabile \ del mio amore assassino.”
Titolo: Racconti
Inserito da: ramingo - 22 Settembre 2007, 20:22:32
... la morale?
quello che non ti uccide ti manda all'ospedale!

ah ah ah

 
Titolo: Racconti
Inserito da: Massimiliano - 23 Settembre 2007, 01:02:44
Ha ha ha ha! :lol:

Ho capito poco ma letto tutto :lol:

azz ma sai che sei brava sul serio? anche se lo stile è Dario argento's like :lol:

La morale poi.. estremamente veritiera.. anche se all'una di notte non è che sia poi tanto sveglio.. ci dormo sopra... chissà che non riesca ad avere chiarimenti nel sonno.. :P

:lol: ciao!! ;)
Titolo: Racconti
Inserito da: ramingo - 04 Ottobre 2007, 22:42:38
Incubo

Proprio quando il ricordo comincia a svanire, Loro ritornano.
Dopo un giorno di ordinaria vita sballata, senza scopo e senza significato, mi ritrovo nel letto che scorta il mio ingiustificato riposo notturno, senza sogni e senza merito.
Dormo.
E
Loro
Ritornano.
Me ne accorgo perché non posso muovermi.
Un attimo primo sono, distesa nel mio letto, dormiente. Un attimo dopo sono, distesa nel mio letto, vigile, ma incapace di muovere un solo muscolo.  Le palpebre, p e s a n t e m e n t e, chiudono i miei occhi.
Ho paura. Come sempre.
Avverto la loro presenza. Ne sento l’odore. Familiare. Disgustoso.
Ho la nausea.
La minima speranza che sia solo un incubo, alimenta la mia volontà di svegliarmi. Cerco di muovere le dita sapendo che poi, riuscendoci, aprirò anche gli occhi e tutto scomparirà.
Mi illudo. Come sempre.
Non ho più la percezione del mio corpo. Sono in loro potere.
Riprendo conoscenza nella grande sala dalle pareti luminosissime. Accanto a me, i miei fratelli e le mie sorelle distesi su lettini di acciaio. Non ho il controllo dei movimenti ma riesco a ruotare la mia testa. Non li conosco tutti e non li incontro mai sulla terra. Posso solo incrociare i loro sguardi quando Loro ci radunano. Ciò non avviene spesso. È più frequente l’esame individuale.
Il silenzio è innaturale. Non sento il mio cuore battere né il mio respiro affannoso. L’angoscia del pericolo che stiamo correndo è insopportabile.
Il suono terribile che preannuncia l’esame annulla i miei pensieri. Inizia come lo scroscio di mille cascate, poi rimbomba come mille esplosioni. Ad un tratto una voce, nonostante il frastuono di tempesta che mi disorienta, sembra arrivare direttamente alla mia coscienza. Il mio udito è invece dilaniato da uno stridore che dolorosamente cancella e inibisce e prostra e sopprime e strappa e consuma e lacera. Le parole, scandite con tono rassicurante e caldo, hanno un sapore crudele e senza scampo. Le dimentico appena la frase che compongono diventa di senso compiuto.
C’è qualcosa che non va.
Di solito la procedura di raccolta, esame e scelta, di per sé molto angosciosa, diventa minimamente tollerabile per il fatto che procede secondo uno schema ben definito, con momenti di dolore insopportabile intervallati da momenti di pace assoluta. Ma adesso qualcosa o qualcuno si sta intromettendo nel mio esame. Io riesco a percepire solo la presenza del guardiano, sulla mia destra. Poi arriva il Vuoto che, da tempo mi racconto, serve a farmi sopravvivere a quello che il mio corpo subisce. Neanche stavolta sono stata scelta. Il guardiano si è allontanato. Quelli che, fra le mie sorelle e i miei fratelli, sono stati scelti, sfilano silenziosi ai piedi del mio lettino. Li vedo perché riesco a sollevare malamente le palpebre. Quel tanto che basta per notare l’aria trionfante dei loro visi. Non dovranno più sopportare questa tortura. Nessuno ci ha però assicurato che essere scelti è una cosa buona. Di nuovo la voce mi parla. Allora non l’avevo immaginata! Stavolta le parole che si dissolvono sono accompagnate da una percezione tattile: qualcuno mi passa dolcemente le mani tra i capelli.
C’è qualcosa che non va.
La paura mi assale. La paura del mai sperimentato. La paura di un pericolo non visibile. La paura di un’intrusione. Emetto un lamento e il guardiano è subito da me. Non so se ho fatto bene a rivelare la presenza della voce. So solo che non permetterò che la voce mi imprigioni per sempre in questa dimensione, sovrastando l’anelato ultimo loro comando. So solo che voglio obbedire all’ultimo ordine che chiude la procedura, l’unica parola che ho mai sentito pronunciare da Loro:
S v e g l i a t i !
È da quel momento infatti che posso dimenticare. È da quel comando che il loro ricordo comincia a svanire, giorno dopo giorno, come se Loro fossero il marcio frutto della mia malata immaginazione umana. Questo mi  basta per sopravvivere fino alla loro prossima visita. E proprio quando il ricordo comincia a svanire, Loro ritornano.
Titolo: Racconti
Inserito da: ramingo - 22 Novembre 2007, 22:57:23
ACQUA & TERRA
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(...e cristallo)

Io sono acqua che, goccia a goccia, sgorga dalla terra.
Lentamente, con molto impegno, formo un rivolo che poi, all’improvviso, diventa un fragoroso ruscello.
Sulle lisce pietre che lastricano il mio cammino, gorgoglio e zampillo e scroscio rumorosamente, conquistando nuovi terreni.
Continuo e uguale è il suono che mi accompagna.
Io sono acqua e in chi è disposto a farsi recipiente, io mi raccolgo.
Trattenuta, parte della mia essenza, si ferma e prende forma.
C’è chi si fa bicchiere e mi regala stralci di mondo visti attraverso pareti di cristallo.
Su chi si fa grata scivolo senza lasciare traccia.
In chi si fa diga mi raccolgo in un lago quieto. Silente mi placo, e cosciente di me, son pronta a raggiungere il mare.
A chi cerca di afferrarmi sfuggo fra le dita.
Travolgo e affogo chi si oppone alla mia irruenza di fiume.
Ma ormai la mia sorgente è esaurita.
Di me non resta che una pozza in un canneto.
Evaporo al caldo sole estivo. Mi alimenta la bruma del mattino.
Resto a marcire nel mio sedimento fangoso.
Non raggiungerò mai più il mare.
Nessuno ha sete di me.
Io sono acqua. Ma morta.

Io sono terra. Arsa.
Polvere e sassi e sabbia aggrego. Tenacemente. Nella pace di un tempo fermo.
Sono solida e immutabile.
Formo una pianura che il vento accarezza e che il sole riscalda.
Generosa permetto che si costruiscano dimore con la mia sostanza. Accolgo benevola chi cerca il riposo eterno. Offro un appoggio sicuro ai viandanti che seguono la via che porta ad ovest. A nessuno permetto di fermarsi. Qualcuno l’ha fatto, ma solo il tempo necessario per trovare se stesso nel cielo stellato che mi sovrasta. Non sono rifugio. Non celo tesori. Nel mio ventre si nascondono solo dei semi. Aspettano la pioggia.
Un pensiero talvolta mi turba. Lontano, al di là del crinale che disegna il mio confine, esiste una fonte. Alimenta un fiume che corre verso il mare. Lo so perché un suono smorzato e sgradito arriva dal crinale periodicamente. È un suono continuo, chiassoso. Senza senso. Ma presto me ne dimentico, avvolta dal sibilare del vento.
Io sono terra. Basto a me stessa.
Voglio mantenere tutto uguale, trovando sicurezza nella mia immutabile forma, ma nonostante ogni mio sforzo, le cose stanno cambiando. Il mattino presto ricevo la visita gradita della pioggia. Acqua silenziosa bagna la mia scorza arida. Forma solchi e pozzanghere. Io stranamente non mi oppongo. Pian piano la accolgo nel mio profondo e acqua raggiunge i semi che germogliano. Ormai verdi prati ricoprono quasi per intero la mia estensione. E il frinire di grilli allieta il mio giorno. E farfalle e fiori e odori e colori mi vanno conquistando gentilmente. I viandanti non tengono il solito passo spedito quando mi attraversano. Qualcuno sta costruendo una casa vicino al crinale. La materia di chi riposa in me rivive al sole sottoforma di licheni e muschio.
Solo un pensiero mi turba. Ora che la voce del fiume ha per me un senso, non la sento più sebbene tenda ogni mia fibra verso di lei. Ma presto me ne dimentico, avvolta dal ritmico cadenzato respiro della vita che in me ha messo radici.
Io sono terra. Fertile.

musica (http://it.youtube.com/watch?v=-bxRewGi77k&feature=related)
Titolo: Racconti
Inserito da: ramingo - 22 Novembre 2007, 23:12:33
ok ci sei.

leggi dopo il racconto sennò facciamo notte....

 
Titolo: Racconti
Inserito da: Lev Nikolaevic Myskin - 22 Novembre 2007, 23:15:23
:D  :D  eccolo !!!! prove tecniche di trasmissione .....  
Titolo: Racconti
Inserito da: Massimiliano - 23 Novembre 2007, 00:17:42
Mizzica.. grandeeeee!!!!!!!!! :D  
Titolo: Racconti
Inserito da: ramingo - 17 Dicembre 2007, 11:23:54
VENTO

Cemento sotto i miei piedi scalzi.
Monti, cielo e verde nei miei occhi.
Corse di bambina verso l’albero di fichi. E salti e giravolte. Tra i panni stesi ad asciugare. Con un ramo secco nella mano destra a guidare il sole, le nuvole, il volo delle rondini. E cantare urlando la melodia dell’estate.
Io ti ho visto. So che volendo potevi farlo anche tu. Ti ho cercato da quando mi sono alzata. Di corsa mi sono vestita. Poi con indifferenza, come per fare altro, ho cercato il mare. E di sfuggita ho posato lo sguardo sulle colline.  Poi, gustato il mio successo nel trovarti dove volevo, mi sono allontanata, togliendoti la possibilità di vedermi a tua volta. E via verso lucertole da acchiappare, fuochi da accendere, formiche da stanare, vespe da schiacciare, bambole da vestire e pettinare, ruote da far girare, palloni da far rimbalzare, fiori da raccogliere, farfalle da inseguire, ragni da osservare, mosche da intrappolare, serpenti da avvistare con pronto l’urlo da lanciare appena intravisti fra l’erba. Attività che mi impegnano intensamente tanto da farmi scordare che potresti avermi scorta a mia insaputa.
Ma è gia sera. Il cielo si riempie di nuvole.
Il vento soffia impetuoso.
Io gli oppongo resistenza con ogni mio muscolo e nervo.
Tante volte mi ha portato via da posti in cui mi sentivo a casa.
Stavolta no. Non glielo permetterò.
Mi scaglia addosso tutto ciò che può. Ma io resisto.
Saggiando la mia nuova volontà, organizza una tempesta coi fiocchi. Un muro di nevischio si avvicina da nord. Conquista e ghiaccia ogni cosa. Fa arretrare l’estate in un angolo remoto a sud.
Ma più si impegna in questo suo intento, più in me cresce la consapevolezza di poter controbattere la sua mossa. La mattina non sapevo forse guidare il sole? Certo non era per mezzo del ramo. Ero io stessa a saperlo fare.
E allora allargo le braccia e dopo una piccola rincorsa spicco il volo.
Un lenzuolo, strappato via dal vento dal filo su cui stava steso, mi si attorciglia su ambedue le braccia. È un modo per farmi perdere la concentrazione. La sicurezza in me. Infatti sembra che per l’ennesima volta sarò allontanata. Portata via come una foglia. Ma arrivata ad una considerevole altezza, fotografando con malinconia il mio mondo che si allontana, posso vedere, là in una landa desolata, le mie donne che prostrate, affondando le mani nella terra per non essere separate, volgono gli sguardi a me. Guardano proprio me e mi attraggono nuovamente verso il basso. E io volo. Volo come aquila. Il vento non può niente contro di me. Ma è  un attimo. Devastante arriva la tempesta di ghiaccio. Mi abbatte con forza a terra. Il freddo e il silenzio mi dilaniano. Un pesante mantello gelido ha preso il posto delle mie ali di stoffa. Non posso muovermi. Mi toglie il fiato. Non mi sento più il cuore battere. Ma le mie donne hanno aperto già la porta di casa. E acceso il fuoco. Hanno visto dove cadevo e già mani amorevoli mi sollevano per posarmi nel giaciglio di paglia davanti al camino. Io sono sopravvissuta alla prova. Io ho vinto.
Domani sarà di nuovo estate e avrò cemento sotto i miei piedi scalzi da correre.
Un cielo da volare. Una porta da bussare chiedendo di te.
Domani monti, cielo e verde saranno nei nostri occhi.
Pietosamente le mie donne coprono il mio viso con un velo bianco. Stanotte veglieranno su di me. Domani mi restituiranno alla terra. Domani.
Titolo: Racconti
Inserito da: ramingo - 18 Dicembre 2007, 11:52:48
:ph34r:
Titolo: Racconti
Inserito da: ramingo - 12 Marzo 2008, 22:23:40
PAPA'

Ho 34 anni.
Mia figlia di 4 anni dorme nel suo lettino messo di fianco a quello matrimoniale.
È una sistemazione momentanea.
Presto le metteremo a posto la  stanza in cui potrà espandere il proprio io insieme a tutto il mondo che sarà solo suo, fatto di giocattoli, libri, vestiti, pensieri.
Ma ancora è così piccola.
Ha paura del buio.
Il suo inconscio le fa temere l’abbandono. Teme di essere lasciata sola. Si sente indifesa nel suo lettino. Fino al mese scorso dormiva fra me e la mia compagna, anche perché essendo di salute cagionevole, in questi primi anni di vita, ha avuto bisogno di cure e attenzioni particolari. Che tenerezza mi fa quando, non avendo la possibilità di poter capire di avere paura di venire abbandonata, dopo essere stata già allontanata dal nido, appena spengo la luce, fa saltare fuori mostri e incubi dall’armadio.
No bimba mia! non ti stiamo allontanando. Non permetteremo mai a nessun mostro di portarti via!
Sai che c’è?
Invece di accendere di nuovo la luce per convincerti che non c’è nessuno e niente, ti dimostro che la paura che il mio amore sia diminuito non ha fondamento. Nel buio allunga il tuo braccio e dammi la mano. Visto? Nessun mostro l’ha ghermito. Il tuo cercarmi è stato premiato. Non posso però rischiare di farti prendere freddo. Allora stendo io il braccio e ti prendo le mani. A patto che sia solo per 5 minuti. Dormi figlia mia. Questo è solo il primo passo verso l’indipendenza che oggi ti fa paura, ma domani vorrai con tutta te stessa.
Una sola cosa voglio che tu sappia:ogni volta che nel buio allungherai il braccio per  cercarmi, io sarò lì, pronto a stringerti la mano. Come ora, sempre. Ma adesso basta con sta ‘mpiccia del mostro. Dormiamo.
Con gentilezza e fermezza lascio la tua mano e già quasi sogno. Dopo nemmeno un minuto mi chiami: “Papà? Paura!”.
Bimba mia, che rompiscatole sei!
Protendo  il braccio verso di te, ma appena fuori dal letto, zanne e artigli me lo dilaniano.
Scusa Emma. Solo ora so che avevi ragione…
Titolo: Racconti
Inserito da: Salvatore - 13 Marzo 2008, 14:00:47
Mi mancavano i racconti di Ramingo. Sentivo la mancanza!!!

 :lol:  :lol:  :lol:  Bella storia!! :lol:  :lol:  :lol:

mi è piaciuta un sacco! ;)  
Titolo: Racconti
Inserito da: ramingo - 09 Giugno 2008, 00:04:13
CAMMINANDO

Perdonami mio amore, ma la storia è semplice:
le gioie nel mio cuore si infrangono come onde di dolore
che spesso poi mi risucchiano.
Basterebbe improvvisare un ritorno alle origini.
Se tutto il giorno penso a te, non è solo il tempo a dire che,
 rimanere fermo qui a scrivere, fa male.
 Sempre a cercare di spiegare il perché in me
c’è una condanna a forma di spirale,
un vortice che della mia vita fa solo un “se…”.

(le vibrazioni -SE- officinemeccaniche)


Lo aveva detto come se fosse un ridicolo pensiero lasciato naufragare.

Elisa, gli aveva ficcato gli occhi nell’anima e aveva chiesto: “portami via.”.
Pregato: “Portami VIA!”
Insistito: “Portami via!”
Urlato: “PORTAMI VIA!”
 
“Affronterò tutte le mie paure…” aveva aggiunto con il solo pensiero, mentre le sue pupille si dilatavano all’estremo. Lo aveva detto a se stessa. E la sicurezza che ci aveva messo nel comporre tale proposito, inondò l’anima trafitta di Fabio.

Eccoli, fianco a fianco, sotto la porta nord della città. Figure scure in una fredda limpida mattina di febbraio.

La scelta di Fabio era quella di una persona che aveva dato tutto quello che doveva e che ormai voleva andare via per ricominciare. Senza rimpianti e senza rimorsi. Stava solo chiudendo un cerchio per disegnarne un altro con il compasso puntato sempre nel centro del suo cuore, ma con un raggio più ampio. Era sempre stato così. La sua vita era una serie di cerchi concentrici. Aveva cominciato cercandosi fra i monti innevati. Occhi lungimiranti lo avevano accarezzato riverberando nei suoi la luce di un tempo quieto e pieno. Aveva trovato l’abbraccio di una bimba nella hall dell’albergo affacciato sul mediterraneo. Si era finalmente trovato perdendosi nella nebbia della pianura, quando anche questo ennesimo giro si completava. Ed eccolo respirare l’aria del mattino, certo che, rispondendo al richiamo del mare, presto il peso dei ricordi sarebbe stato più leggero. Certo che i sogni passano solo se li si lascia passare.

Elisa aveva sempre dato quello che doveva. Così come da sempre aspettava invano il momento in cui sarebbe riuscita a realizzare quei progetti che rendono felici. Ferma in un tempo stagnante fatto solo di attesa, ormai il sole non la riscaldava più come quando credeva nella sua utopia. Rimanendo sveglia a metà, vivendo per sentito dire, riflettendo la vita d’altri, era solo capace di raccontare le storie che aveva visto, gli sbagli che sapeva fare. Dal mondo non era toccata. Nel mondo non era mai andata. Leggeva cose mai scritte, sentiva parole non dette, vedeva solo i dettagli avulsi di un quadro generale. Tesseva con i suoi sterili “se” una trama complicata e contorta e si inviluppava nella comoda coltre. E  più girava su se stessa, più soffocava. Il mare non le aveva mai fatto sentire la sua voce. Almeno fino a quando, stanca di aspettare qualcosa che non c’era, non guardò il sole sorgere e respirò l’aria del mattino. E implorò “Portami via! Portami dove non serve sognare”.

Fabio in silenzio comincia a camminare. Poi si ferma , si gira e le fa un cenno con la testa.  
Guarda Elisa fare il suo primo passo. Oltre.

 

A un passo dal possibile
A un passo da te
Paura di decidere
Paura di me
Di tutto quello che non so
Di tutto quello che non ho

(Elisa -Eppure sentire (un senso di te)- Soundtrack ’96-’06 greatest hits)


È difficile tenere il suo passo. Elisa affonda nella neve.
Fabio aspetta. Ma può farlo per poco tempo.
Inesorabile il compasso lascia l’orma sul foglio che racconta la sua vita. Fabio deve affrettarsi: il mare esige la sua presenza. Prima e dopo il sogno c’è la vita da vivere. E Fabio lo sa.
Elisa invece sa solo sognare. Vista la casa del guardaboschi, chiede già di fermarsi.
Eppure il mare è laggiù, riflette gli ultimi raggi del sole calante.

Elisa: “Regalami un po’ di calore”.
Fabio: “Adesso devo proprio andare”.
Elisa: “Vorrei tanto restassi”.
Fabio: “Lo so, se volessi, potrei restare”.
Elisa: “Viviamo qua assieme…”
Fabio: “Non insistere, dai”.
Elisa: “…moriamo qua assieme”.
Fabio: “Apri la porta. Non mi legare”.
Elisa: (sussulto gelido del cuore) “Allora questo è già un addio…”
Fabio: (respiro spezzato) “Si, mio mancato amore. Sarò nuvola e tempo che consola, sarò vento e nostalgia. Sognami e cancellerò la tristezza e il vuoto che avrai”.
Elisa: “Ma dimmi, saprò mai io vivere?”
Fabio: “Si, se avrai il coraggio di fare un passo dopo l’altro. Nel presente, senza rimpiangere il passato, senza temere di costruire il futuro. Si se guardare il mare non ti basterà, ma vorrai bagnare i piedi nell’acqua salata”.
Parlano aspettando che la luna sorga. Niente ha valore quanto la voce dell’uno per l’altra. Divampa il fuoco senza bruciarli.

E il tempo contò gli anni a chi non era stato pronto.
Elisa ancora cerca nei sogni e nel pianto, sente nei giorni silenziosi, Fabio.


 
Titolo: Racconti
Inserito da: ramingo - 08 Luglio 2008, 20:13:55
Vacanza

Come ogni anno il ritorno alla casa natia era un rito di purificazione che accompagnava puntualmente le vacanze estive.
Un tempo erano due i mesi da dedicare alle proprie radici, poi, pian piano, i mesi sono diventati settimane che, impercettibilmente, sono diventati  solo pochi giorni.
Da contare sulle dita di una mano.

Catarsi.

Rifugiarsi nella propria bolla atemporale lasciandosi tutto alle spalle.

Lontano.

Ma quanto poteva  essere capiente la riserva di buone vibrazioni custodita fra gli spessi muri della casa rurale? E, soprattutto, chi  avrebbe provveduto a rinnovarne le scorte quando il tempo avrebbe cancellato le persone che, con la loro quotidiana operosità, rendevano tutto vivo e significativo? Ecco a cosa pensava Emma mentre il treno la riportava verso il mare, mentre sonnecchiando dietro gli occhialoni da sole che nascondevano i suoi occhi tristi, stringeva fra le mani il libro che le offriva il pretesto per non essere disturbata dagli altri viaggiatori. Pensieri poco adatti alla splendida giornata che lentamente si consumava là fuori, per chi era già a casa. Lentamente si, quasi a dispetto della veloce corsa dell’intercity che attraversava paesaggi diversi con la stessa indifferenza. Metro dopo metro, chilometro dopo chilometro.
Un presagio fastidiosamente nero e freddo le rese più pesante il lungo viaggio e certo l’arrivo non ne migliorò l’umore melanconico.
La vecchia stazione era stata ‘ rimodernata’ con tutta una serie di migliorie che però avevano comportato un degrado fastidioso e fuori luogo. Un sottopassaggio ora permetteva di non attraversare i binari per raggiungere l’uscita e una passerella accompagnava le scale in modo da permettere ai viaggiatori di trascinare dietro di sé il loro mondo stipato in un trolley. Però il bianco di muri era stato percepito come un invito a lasciare iscrizioni poco consoni al luogo di villeggiatura che Emma ricordava svilupparsi lindo e ordinato al di là del parcheggio della stazione. La cosa che la infastidiva era l’indifferenza con cui gli altri passeggeri attraversavano quel tunnel vociando, abituati oramai al degrado insensato. Ebbe una stretta al cuore sentendo il commento di due anziani signori che aspettavano l’arrivo di un altro treno: 'perché? perchè queste scritte?' Di colpo ricordò che da piccola chiedeva spesso al papà di andare a vedere i treni partire, di come la stazione era un posto sicuro e decoroso: panchine allineate al muro di cinta intervallate da oleandri in fiore in grandi vasi, una zampillante fontanella in cui facevano il bagno i pettirossi, cicale e grilli che frinivano senza sosta nel canneto che incorniciava la massicciata esterna. Come era bello sentire lo scampanellio che annunciava il treno in arrivo e quale brivido accompagnava il suo cadenzato passaggio. Poi c’era il saluto al capostazione che con tanta cortesia rispondeva alla solita domanda sui treni in transito: 'questo dove va?'
 
Emma si diresse  verso lo spiazzale degli autobus e pazientemente attese il suo, seduta sul trolley.
Titolo: Racconti
Inserito da: ramingo - 21 Luglio 2008, 23:02:34
Andrea (http://it.youtube.com/watch?v=MnFFaQHRx0k&feature=related)

Racconto è desiderato.
Andrea deve assolutamente trasporre sul foglio le impressioni e le emozioni che gli affollano la mente e il cuore.
Ispirazione  però non è con lui.

Inizia così ad invocarla…
 
si avvicinò a lui e gli prese la mano.
Lentamente la strinse e l’accarezzò.
Dolcemente la sfiorò con le labbra.
Lui dormiva.
Il suo respiro era una dolce melodia che cullava l’anima di lei.
Il ritmo di quel respiro pareva unirsi all'unisono con il cadenzato
 rumore del vento che giungeva dalla finestra lasciata socchiusa.
(Erano parte del tutto. Erano il tutto.)
Poi nel dormiveglia le mani di lui cercarono il viso di lei. I polpastrelli ne scandagliarono pigramente i semplici lineamenti. Complicatamente semplici ma capaci di far risaltare i penetranti occhi verdi, occhi che racchiudevano immagini molto belle e fantasiose tali da poter far sciogliere un ghiacciaio. Le mani ruvide di lui creavano un piacevole attrito sulla pelle di lei, candida e morbida. Quelle  mani ruvide, seguendo i percorsi sinuosi del corpo, le narravano di un viaggio, dei ritagli di un viaggio lungo una vita, della pienezza delle cose conquistate, del rammarico per le cose perse, delle numerose facce scrutate e delle poche ammirate, della falsità celata in alcuni di quei lisci e marmorei visi, della bontà scoperta in quelli segnati dal lavoro nei campi, della sincerità profonda svelata da innocenti sguardi.

Boom!

Un fragore interruppe il dolce quadretto. Un colpo di vento.  Un filo d'aria aveva fatto, un po’ per volta, spalancare le imposte, un pò per volta, e poi un soffio dal più  forte impeto aveva deciso di richiuderle determinando il molesto rumore, spezzando la sincronia del respiro dell’uomo con quello dell’infinito.



Ispirazione ha assolto il suo compito e va via.
Sogno , ormai destato da Caso , svanisce.
Rimane solo Oblio  che già avvolge Racconto , nascondendolo agli occhi di...
Titolo: Racconti
Inserito da: Massimiliano - 23 Luglio 2008, 22:46:46
... ullapeppa....  
Titolo: Racconti
Inserito da: ramingo - 13 Settembre 2008, 18:07:57
GUSCIO

E pioveva anche fuori.
Gocce di pioggia scivolavano sul vetro. Come le lacrime che le accarezzavano il viso.
Lampi ferivano le nubi. Come le parole che le colpivano le orecchie.
Tuoni conquistavano con ritmo crescente il cielo. Come i singhiozzi che ne scuotevano il corpo.
Era freddo anche fuori.

Vennero poi il buio e il silenzio.
Anche fuori.

Emma non aveva niente da donare al mondo.
Grazie a questa osservazione oggettiva, prese, per la prima volta, l’unica decisione su cui non ebbe mai dubbi.
Decise di espiare questo suo peccato con la convinzione di potersi riappropriare della sua anima eliminando il suo corpo.
Decise anche di  mortificarlo. Gli negò il cibo.
Il mondo non aveva più niente da donare ad Emma.

Dopo quella decisione non versò la lacrima superflua.
Dopo quella sera ebbe una meta raggiungibile in solitaria.
Dopo quel temporale non disse più una parola.

Si spegneva disegnando e dipingendo.
Trasferiva la sua essenza  nel carboncino, nella matita, nei colori consumati negli schizzi
graffiati distrattamente sui fogli di ruvida carta, nei soggetti riprodotti meticolosamente sulla tela.
Era un lavoro lento. Continuo.
Trasferì la sua rabbia in un tramonto sul mare.
La mise in quelle nubi che coprivano il cielo e che si tingevano di rosso sotto, mentre sopra erano nere e grigie. Quasi di roccia.
Trasferì la sua tristezza nelle pieghe di una conchiglia sulla sabbia.
Ogni granello era un pensiero che la assillò, piccolo e fastidioso, capace di nascondersi in ogni dove.
Trasferì la sua solitudine in uno steccato che racchiudeva uno prato che nessun
animale domestico calpestava.  Nell’inutile chiavistello sulla sua apertura. Nella greppia vuota divelta.
Trasferì la sua ira in un cavallo nero che, dopo una folle corsa, si impennava sul bordo di una scogliera.
Trasferì il suo egocentrismo in una trottola senza la punta. Piegata su di un lato, tristemente riposta in un cassetto di una scrivania dimenticata in una soffitta.
Trasferì la sua accidia in un violino impolverato. Senza corde. Negli strati di polvere si contavano gli anni sprecati in disquisizioni inutili sul cosa fare che non venne mai fatto.
Trasferì i suoi affetti in un ciliegio. Ben ancorato a terra, frondoso, carico di frutti di un intenso rosso amaranto.
Trasferì la sua allegria in un ruscello di montagna, che strisciava fra gli alberi formando piccole cascate. Ogni goccia zampillante era una risata. Sempre uguale e diversa.
Trasferì la sua spensieratezza nei panni stesi ad asciugare sui fili in un giardino. Le  mani e i piedi di una figura di bimba che vi correva in mezzo, racchiudevano il suo incanto innocente. Nel vento che li straziava, l’ombra del disincanto che un giorno avrebbe lacerato anche lei.
Trasferì il suo amore in una tela che ricoprì di bianca tempera.
Oramai non aveva la forza di alzarsi. Lo fece da seduta. Ad occhi chiusi. L’amore il più delle volte la rese cieca.
Per ultimo trasferì la sua paura. Sempre sulla stessa tela. La impresse con la tempera rossa nella parola EMMA.

Tutto ciò è quello che rimane oggi di lei.
Tutto ciò parla di  Emma più di quanto mai la stessa Emma fu in grado di dire di se stessa.
A guardarla ora, Emma non è altro che un guscio vuoto di una cicala, figlia della terra, dimorante dell’aria, dissolta su di un ramo al sole d’estate.


(http://media.ifocus.focus.it/allegati/2008/03/3966e9cb-2da4-4f6d-95b8-018ecee72376.JPG)


frinire della cicala (http://www.naturamediterraneo.com/cicala/canto%20cicala.au)
Titolo: Racconti
Inserito da: ramingo - 29 Gennaio 2009, 18:42:50
"il colloquio tra due individui a cui manca il senso dell'altro potrebbe apparire un dialogo
 ma in realtà è un semplice scambio di dichiarazioni unilaterali. viene a mancare
 inevitabilmente la comunicazione"
(DAISAKU IKEDA)

(http://www.karasardegna.it/public/photogallery/vigneto_1.jpg)


SCELTA

Andrea prendeva il largo con la barca a remi del nonno ogni alba dell'ultimo semestre. Rammendava le reti la sera prima e le riponeva con cura a prua. Poi le stendeva nell'acqua nera come l'inchiostro e aspettava che si riempissero dei doni del dio Nettuno. Rito antico che gli serviva per vivere il nuovo presente. Una cristallina mattina di dicembre decise di acquistare la sua "Libertà". Così chiamò la sua barca a vela di 11 metri. Con quale gioia aveva dipinto di bianco ciascuna delle singole lettere sull'azzurro dello scafo! Era domenica. Era il giorno in cui decise che il mestiere del nonno sarebbe stato anche il suo. Avrebbe però praticato la pesca a traina rimorchiandone una sola, costituita da una canna, un mulinello, un cuscino di lenza in dacron, da filo metallico autoaffondante, da un terminale in nylon e da un'esca artificiale. Ebbene, con questa semplice attrezzatura e un pò di fortuna, avrebbe pescato tonni di branco e alalunghe durante le traversate, dentici e palamite durante le circumnavigazioni insulari. Scelse una pratica di pesca metafora della Vita che aveva intenzione di condurre: la proiezione di sè verso l'insolito e verso l'imprevisto. Si sentiva vivo quando all'improvviso in un'onda che stava superando vedeva un branco venire su, muovendosi all'unisono a pelo d'acqua; e quando dalla massa incolore emergevano alcuni dorsi d’argento che come lame affilatissime tagliavano veloci la superficie dell’onda per poi sfilargli a poppa, preparandolo alla lotta che ne sarebbe derivata. In confronto quella che conduceva prima non era Vita: era diventato avvocato solo per non dare un dispiacere al padre. Ora che lui non c'era più, era tornato alla sua isola portandosi dietro una parte della sua passata non-vita: Emma.
Emma era cresciuta in città ma amava il mare e molto di più amava Andrea. Accettò con entusiasmo la decisione di trasferirsi su una delle più belle isole del Mediterraneo. Lo fece perchè solo là aveva visto una luce particolare brillare negli occhi di Andrea. Lo fece anche perchè, le dolci colline che degradavano verso la scogliera, le consentirono di realizzare il suo sogno da agronoma: rimpiantare un vitigno autoctono ritenuto dai molti ormai perso per sempre, un fantasma del passato, il cui nettare poterono apprezzare solo gli antichi romani.
Emma non si sentì tranquilla.
Andrea non la salutò prima di uscire.
Sull'imbruire la natura sembrò rispecchiare il pumbleo umore di Emma. Cielo e mare si fusero in un unico blocco di grigio granitico screziato in lontananza da fulmini ramificati che segnavano il limite del cielo. Ovvero il limite del regno del mare. Poi si alzò il vento impetuoso e onde rumorose spostarono il confine del regno della terra facendolo arretrare fino alle dune odorose su cui depose il salato sapore dell'acqua marina. Emma piantò la sua anima insieme al suo corpo sugli scogli. Lei non avrebbe arretrato di un solo passo fin quando il mare non le avesse restituito Andrea. Rimase lì per tutta la notte. E per tutto il giorno successivo. E ancora per un altro giro del mondo su se stesso e un altro giro ancora. Inutile fu l'intervento dei soccorsi che ella stessa avvertì. Le condizioni atmosferiche permisero che l'elisoccorso arrivasse per constatare che Emma non ce l'aveva fatta. Aveva vinto il mare.
Aveva chiesto di poter dire addio ad Andrea e non c'era riuscita.
Neppure Andrea potè farlo.
Approdato sul lato ovest dell'isola mise in salvo quanto rimaneva della sua "Libertà" in una insenatura e trovò riparo in una caverna.
Per i sette giorni di tempesta bevve dell'acqua che stillava dalle stalattiti che impreziosivano la volta del suo rifugio e mangiò i pesci che aveva pescato prima che il mare lo ributtasse a terra.
Accese anche un fuoco che alimentò con la legna che precedenti mareggiate raccolsero sul fondo della grotta.
Con gioia accolse il primo sole dell'VIII giorno, meno l'elicottero che lo avvistò verso le 9.
Si sentì quasi oltraggiato.
Non aveva bisogno di nessun aiuto per tornare a casa. Del resto lo avrebbe potuto fare anche dal primo giorno quando, esplorando il fondo della caverna, scoprì un passaggio nella volta che lo avrebbe condotto dritto dritto alla vecchia cava dove il nonno ricavava la calce cuocendo le pietre. Era un posto che conosceva bene.
Ci giocava da bambino, quando credeva che le pietre che il nonno frantumava fossero magiche a causa delle iscrizioni. Erano i resti di un tempio del dio Apollo.
Non ritornò semplicemente per godersi l'avventura.
Grande fu il dolore nel sapere della sua Emma, ma mai ebbe il rimorso di non essere tornato da lei. La sua nuova vita era fatta di scelte fatte secondo una scala di priorità in cui il benessere di Andrea veniva prima di tutto, tanto era profonda la cicatrice che gli aveva lasciato il padre.
Aveva scelto per lui.
Certo non si era imposto con le parole ma lo aveva reso ostaggio delle sue aspettative.
Ostaggio dell'amore egoista e cieco.
Non gli aveva dato alternative e senza almeno un'alternativa non c'è scelta.
Dal punto di vista di Andrea anche Emma aveva fatto una scelta.
Sbagliata si, ma rispettabile.
Perciò messa una croce sugli scogli, Andrea andò oltre.
Acquistò un nuovo catamarano chiamandolo "Realtà" sotto, incise sullo scafo verde scuro, la frase ”Лиса, лисица навсегда” e decise di occuparsi del vigneto a tempo pieno.
Ne fece un'attività redditizia: il suo vino ottenne la Dop. La sua vera soddisfazione fu che per merito suo l'umanità potè di nuovo godere del colore e del sapore che richiamavano i tempi degli dei. Di andare al largo aveva sempre meno voglia e gli impegni lo tenevano di nuovo in città.
Della sua vita sull'isola rimase il profilo di una croce sul confine della terra e del mare.





(http://www.pia.abruzzo.it/templates/img/img_pesce/5.jpg)

Qualunque cosa distrugga la libertà non è amore.
Deve trattarsi di altro, perché amore e libertà vanno a braccetto,
sono due ali dello stesso gabbiano.
(osho)





http://www.nautica.it/pescaweb/traina/vela.htm (http://www.nautica.it/pescaweb/traina/vela.htm)
Titolo: Re:Racconti
Inserito da: ramingo - 02 Giugno 2010, 19:34:29

Campo di grano

Dalla valle guardavano tutti verso la collina sovrastante.
Nel suo declinare graduale accoglieva uliveti, vigneti e un verde campo di grano. Un tempo era vietato piantare il grano nella zona sud della contrada, ma il motivo del divieto  lo custodivano i pochi centenari rimasti in vita e questi erano ormai forzieri dalla chiusura arrugginita e il motivo si confondeva con il mito. Eppure eccolo là.
Il gigante era tornato.
La via aperta dal mulinare del vento fra la chioma verde del campo di grano. E con tre passi era a valle ad inseguiva le donne che prima impaurite lo indicavano incredule, riparandosi gli occhi dal sole e, come faceva cent'anni prima, ne divorava la testa e ne beveva il sangue.
Emma guardava la scena. Tremava. La sua casa era sulla cima di un'altra collina ma a est. Era la collina dei querceti, ma di certo il gigante avrebbe potuto sradicare querce, quante ne voleva, anche con una sola mano, per farsi strada. Per il momento lo vedeva andare su e giù fra valle e campo di grano. Tre passi. Forse un occhio solo. Gambe e braccia scoperte, scarpe fatate.
Dalla valle grida e terrore. Era vietato seminare il grano!
Il vento turbinava e il campo cantava una nenia di morte.
Il gigante scese un'ennesima volta ma non risalì. Scomparve alla vista di Emma che decise di rientrare. Si sarebbero barricate dentro casa. Il gigante sembrava non potesse nulla contro le abitazioni. Avrebbero aspettato che scomparisse così come era apparso.
Nel mentre Emma volse le spalle all'orrore, percepì una presenza proprio dove il suo sguardo non poteva arrivare. Proprio là, un vecchio con un sacco di tela marrone sorrideva beffardo. Sugli occhi ciocche di capelli bianchi e una tesa di cappello di feltro. Emma non si voltò se non quando fu dentro casa, consapevole che se avesse chiuso la porta nessuno vivo o morto, umano o di altra natura, cosa o persona, avrebbe potuto seguirla. Ma il vecchio doveva sapere di arte Arcana. Di una porta di legno ad un'anta , Emma si trovò a doverne chiudere tre, a due ante ciascuna. Una di vetro, una di legno, una di ferro. Nonostante lo sforzo e la concentrazione che ci mise, le porte non si chiusero. Le ante si mescolavano e la povera confusamente cercava di far combaciare il vetro con il legno, o il legno con il ferro. Inutilmente.
Il vecchio le si parò davanti e ad Emma che lo guardò in viso, non rimase scelta: fece un passo indietro e il vecchio entrò.
“Porto con me i figli del gigante” esordì quello che era sicuramente uno stregone.
E mentre il vecchio fece per sciogliere il sacco dove presumibilmente stavano le creature, un'altra presenza si muoveva alle spalle di Emma. Scendeva dalle scale che portavano al piano superiore, era un ragazzo dai lineamenti delicati e molto pallido; portava una borsa a tracolla e sorrideva. Anche i suoi occhi nascosti da ciocche di capelli scuri. Emma però non si sentì privata di volontà come con il vecchio. Anzi tanta rabbia le salì dal petto perché facendo entrare il vegliardo aveva messo in pericolo le sue donne e ora che era di nuovo in sé avrebbe fatto di tutto per rimediare al suo sbaglio. Lasciò il vecchio che rideva a sciogliere un nodo troppo stretto e con deciso piglio si rivolse al ragazzo: “Chi sei? Chi ti ha dato il permesso di entrare? Solo il vecchio ha potuto! Tu non sei stato invitato, non hai varcato la porta segnata. Dimmi, chi ti ha detto di poter entrare in casa mia?”. “Sono il terzo figlio del gigante e sono entrato dal davanzale della finestra” disse indietreggiando la creatura. Ed Emma “Allora dà lì uscirai nel nome della Madre Bianca”. Il giovane al comando si piegò su se stesso come colpito nelle viscere. Il suo volto si fece rugoso e la pelle illividì. Emma lo incalzò “Vai via te lo ordino e te lo ripeto nel nome della Madre Bianca”. Stavolta la figura ormai risalita fino alla cima delle scale fu come risucchiata dalla finestra. Emma senti distintamente un tonfo. Era morto.
Scendendo trovò di nuovo il vecchio. Un corpo di bimbo di circa sei anni era a terra. Morto un altro figlio del gigante. Soffocato nel sacco. Ne rimaneva un altro. Un neonato. Una creatura perfetta almeno alla vista. Paffutello e roseo, dimenava manine e piedini nudi. Non piangeva ma articolava dolci suoni.
Il vecchio guardava e rideva beffardo.
Emma non aveva scelta.
Cercò nel cassone un telo di lino bianco; per compassione ne avrebbe avvolto il corpicino e poi lo avrebbe buttato nel pozzo. All'improvviso nel coprire il viso della creaturina che le sorrideva, ebbe la consapevolezza che il pericolo non erano i figli del gigante ma il vecchio. Infatti il vecchio non si era potuto muovere dall'ingresso, legato da qualche protezione di cui l'antica casa usufruiva. Invece il bimbo che stringeva fra le braccia aveva avuto accesso nella stanza attigua. Poi il vecchio non aveva detto alcunché sulla necessità di uccidere le creature ma sorrideva e lanciava occhiate di fuoco.
Allora Emma con calma finì di fasciare il bimbo e fece come per colpirne la testa con un pesante ferro da stiro. Ma si fermò appena in tempo potendo leggere il disappunto sul viso del vecchio che scomparve avvolto da una fiamma azzurra, lasciando di se solo l'odore di zolfo.
Emma scoppio in lacrime e strinse al petto la sua bimba.
Da quando la guerra le aveva portato via il marito e la carestia i due figli maschi spesso perdeva il senno. Ma la sua Alice ogni volta l'aveva  riportata alla realtà, dandole la forza di combattere i suoi demoni. Creatura perfetta, rosea e paffutella, dagli occhi scuri e profondi come quelli del padre.
Titolo: Re:Racconti
Inserito da: ramingo - 02 Settembre 2011, 17:18:12
Contare.

Contare.
Non faceva altro da 197 giorni. Si proprio C E N T O N O V A N T A S E T T E  giorni di cui aveva contato le ore e talvolta anche le frazioni di ore.
28 pagine al giorno del libro preferito del momento.
4 o 5 biscotti nei 200 ml di latte caldo al mattino.
6 docce alla settimana di 7 minuti più una di 11 per lavare anche i capelli.
2600 metri al giorno e 4334 passi, uno più uno meno, 40 minuti al giorno all’incirca.
Delle rimanenti 23 ore e 20 minuti, 8 di lavoro, 2 dedicate al cibo, 5 e 40 ad attività varie, 7 da destinare al sonno notturno. In realtà ormai ne dormiva 5 effettive. I rumori della città che si sveglia invadevano il suo sonno la mattina presto e le rosicchiavano il necessario riposo. La sveglia suonava quando già aveva contato il 1620esimo secondo. Un’ora per uscire di casa. Tassativamente a meno un quarto: un solo minuto di ritardo avrebbe sfasatole attività del resto della giornata.

Nei giorni di lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, venerdì.
Prima attività: arrivare in ufficio.
Sottoattività
-   preparare il necessario per la pausa pranzo e lo spuntino pomeridiano da consumare in ufficio
-   adeguare il contenuto della borsa alle condizioni atmosferiche esterne
-   mettere a portata di mano chiavi e cellulare e spiccioli per il caffè
-   chiudere le finestre
-   ricordarsi delle vitamine
-   ricordarsi della spazzatura
-   chiudere a doppia mandata la porta
-   imboccare il via del percorso dei 2172 passi: vetrine – semaforo – edicola - barbone che espone fiori di metallo -fila alla posta ancora chiusa – strisce pedonali – pendolari che vanno di corsa – edicola - odore di cornetti e caffè – indianino che mette collanine e occhiali  in vetrina – attraversamento pedonale – odore di spezie e cipolla – nordafricani – il cinese che spazza il marciapiede – attraversamento pedonale – odore di pipì di gatto – fruttivendolo – attraversamento pedonale – fiori pendenti – bicicletta legata al tubo del gas – l’avviso VENDESI là da 15 anni – attraversamento pedonale – scuola – suo fratello nel sua dimora – attraversamento senza strisce – la macchina gialla – la spazzina sprint - giardini – cuccia senza il cane – tratto acciottolato – attraversamento pedonale – colleghi nel parcheggio – colleghi che vanno al bar – gente già in fila – “buongiorno”- arrivo

Seconda attività: vivere in ufficio.
Sottoattività:
-   prepararsi psicologicamente all’impossibilità di opporsi alla legge  di Murphy
-   aprire finestra, accendere  luci, condizionatore, stampante, fotocopiatrice e pc e nel mentre ripetere fra sè e sè, a mò di mantra, i corollari che derivano dalla legge suddetta:
1.   Niente è facile come sembra.
2.   Tutto richiede più tempo di quanto si pensi.
3.   Se c'è una possibilità che varie cose vadano male, quella che causa il danno maggiore sarà la prima a farlo.
4.   Se si prevedono quattro possibili modi in cui qualcosa può andare male, e si prevengono, immediatamente se ne rivelerà un quinto.
5.   Lasciate a se stesse, le cose tendono ad andare di male in peggio.
6.   Non ci si può mettere a far qualcosa senza che qualcos'altro non vada fatto prima.
7.   Ogni soluzione genera nuovi problemi.
8.   I cretini sono sempre più ingegnosi delle precauzioni che si prendono per impedir loro di nuocere.
9.   Per quanto nascosta sia una pecca, la natura riuscirà sempre a scovarla.
-   Importante: ricordarsi che se le cose sembrano andar bene, c'è qualcosa di cui non si sta tenendo conto
-   Prendere un caffè amarissimo al distributore
-   Fare sorrisi sforzati a chi incroci
-   Ritornare al pc e cominciare a pregare che ti permetta di lavorare
-   Tenere dei kleenex sulla scrivania per chi anche oggi ti dirà che ha problemi e piangerà perché ha girato per tanti uffici e solo tu gli cerchi un numero di telefono o gli dai un nome perché sta morendo: ha il cancro; perché le è morto il nipotino; perché la figlia la picchia; perché è vedovo; perché il marito ha la SLA.
-   Stamparsi in faccia interessamento per tutto quello che ti racconteranno
-   Ricordarsi di respirare quando parli con il capo
-   Sopravvivere alla giornata ricordandosi anche di mangiare e bere

Terza attività: Ritorno a casa
Sottoattività
-   Tornare a casa!
-   Fare un passo dopo l’altro
-   Dirsi: Tra poco sei a casa.
-   Fare un passo dopo l’altro
-   Arrivare al 1528esimo passo e lì aspettarsi di incontrarlo.

Si perché in questa terza attività del lunedì, martedì, mercoledì, giovedì e venerdì c’era una cosa che ancora cancellava i numeri. Il gattone nero che sornione stava al cancello del giardino. Aveva il pelo folto e lucido lucido. E la lingua rosa che spuntava dal muso. Era il re del giardino. E come tale andava a reclamar il suo possesso di ogni angolino, con regalità felina si intende. E stava là a guardarti e a dirti: “io si che son felice”.

Ma venerdì, il 198esimo giorno, al ritorno a casa, al cancello del giardino il gattone non solo non c’era, ma al suo posto c’era un esserino freddo e viscido, fragile e forte allo stesso tempo. Una tartarughina di terra, verde e marroncina. Immobile nel suo guscio. La sua posa non aveva niente di aggraziato. Le zampette storte, il guscio sbeccato nella parte sinistra. La testolina protesa in avanti come se stesse annusando l’aria. E la testa piegata, per poter osservare il mondo con un solo occhio per volta. E stava li a guardare e a dire: “io si che sono infelice”.

E il racconto finisce qui.

Per Emma non ci fu il 1529esimo passo, né un 199esimo giorno.
Da allora non contò più nulla.
Titolo: Re:Racconti
Inserito da: andama - 04 Settembre 2011, 19:36:49
coplimenti !!sei fantastica..
Titolo: Re:Racconti
Inserito da: ramingo - 05 Settembre 2011, 16:52:38
 ;)
Titolo: Re:Racconti
Inserito da: ramingo - 29 Giugno 2012, 23:05:27
APPUNTI

Una sedia rossa. Ecco cosa mi porto dentro dopo questi pochi giorni trascorsi a casa.
Affetto.
Un abbraccio che mi dice “non aver paura”. Che le cose possono andare storte, ma non bisogna arrendersi. Una porta chiusa ha pur sempre una chiave che apre. Se non ce la fai tu ci sono io. E se non si apre, a rimanere fuori siamo in due.
Luce. Intermittente, imbrigliata in una ragnatela. Luce che da alba si fa giorno. Luce che ha bisogno di guardiani.
Odore di buono.
Il sapore dei ricordi.
La consolazione per un dolore universale.
Ora mangio da sola con la paura che la gola gonfi.
Mi scrivi un sms e io penso che mi mancherai.