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Piazza XVII Settembre => Fantasia... racconti, prose, storie => Topic aperto da: ramingo - 24 Maggio 2007, 18:57:09

Titolo: Erba Del Vicino - Farina Del Sacco Altrui
Inserito da: ramingo - 24 Maggio 2007, 18:57:09
Scusate non ho resistito!
uno dei miei siti preferiti (oltre a buonvicino.net...) è scheletri.com, sito che è cresciuto grazie alla passione di tanti giovincelli per la scrittura.
Ebbene oggi ho trovato  un racconto meraviglioso che sembra scritto appositamente per max e sax (gli amministratori)!!!

Vi lascio il link in modo che possiate leggerlo:

racconto (http://www.scheletri.com/racconto2059.htm)

...
 :P

Anno 2007.
Il cellulare lo fulminò al ritorno dall’ufficio. Spense l’autoradio, accostò, tolse l’aggeggio di tasca, senza entusiasmo. Numero privato, dichiarava il display. Inizio pessimo: c’era sempre la fregatura, quando nascondevano il numero, e Paolo Volpi ne aveva già incassate parecchie. Abortì la nascente bestemmia.
«Pronto?»
«Ohi, Paolo, hai cinque minuti?»
Dario Ferrazzi, appunto. Cosa s’era inventato, stavolta?
«Sì, ma mi servono. Facciamo domani.»
«È urgente. Ci hanno beccati.» Parlava come una radio dalle pile quasi scariche.
«Cosa intendi?»
«Lo sai cosa intendo. Allora, ce li hai cinque minuti?»
Eccolo fregato. Come sempre. Maledetti i numeri privati! E maledetto pure Dario, già che c’era.
«Per forza che ce li ho», rispose stanco.
«Perfetto. Dobbiamo parlarne di persona.»
«Dove sei, adesso?»
«Al 127.0.0.1»
Al solito, pensò. Feticista dei computer. «Perché non puoi dire ‘casa’, come le persone normali?»
«Perché non è lo stesso, lo...»
«Lascia perdere», interruppe Paolo, «e aspettami lì. Arrivo subito.»
Guidò in fretta, sotto un cielo di calcestruzzo. Pareva dovesse piovere da un momento all’altro, ma pareva soltanto: non s’era ancora vista una sola goccia. Tempo di merda, bofonchiò tra i denti.
Ci hanno beccati. Magnifico! Il modo giusto per concludere la giornata. Non aveva neppure la forza di arrabbiarsi, dopo dieci ore d’ufficio. È tutto sicuro, vedrai. Non se ne accorgeranno. Andar male? No, impossibile. Un affare! Quante volte glielo aveva ripetuto, Dario, per convincerlo? Alla fine ce l’aveva fatta, ovvio. Ce la faceva sempre.
Nomen omen, vero?, si chiese ironico Paolo, Volpi di nome ma non di fatto.
Stavolta, però, s’erano ficcati in un bel casino, se li avevano beccati davvero. E tutto grazie a Dario. Hacker, c***ker, wafer: che si facesse chiamare come voleva, quello, ma restava sempre un idiota.
«No, l’idiota sono io che l’ascolto», borbottò di nuovo, mentre parcheggiava davanti alla sua casa. «Sono io l’idiota vero, perché non l’ho ancora mandato dove merita.»
Scese di malavoglia, camminò di malagrazia e bussò in malo modo. Sarebbe dovuto essere sul suo divano, ora, a riposarsi in attesa che l’acqua bollisse. Sul divano a guardare il niente, ma soprattutto a pensare a niente. Invece...
«E non apre nemmeno, lo stronzo!»
Bussò di nuovo, poi provò la maniglia. Era già aperta. Entrò sbuffando.
Non c’era un cane, l’ingresso era buio.
«Dario!»
Premette l’interruttore, lo premette di nuovo. Niente luce. Ma possibile che non funzionasse nulla, quella sera? Chiamò ancora.
«Dario!»
Gli rispose il silenzio. Con un sospiro, si avviò verso l’interruttore generale, che fortunatamente non era molto lontano. Con tutte le volte che l’aveva sistemato lui, dopo che quel deficiente aveva fatto saltare la corrente, l’avrebbe potuto trovare anche alla cieca. E lo trovò, infatti.
Abbassato, come era lecito aspettarsi. Lo sollevò e si guardò attorno, nella casa ora illuminata. Non una traccia di Dario. Era uscito, lasciando tutto aperto e acceso? Anzi, acceso no, perché mancava la luce. Ma la porta era aperta, questo sì. E allora?
Paolo non aveva ancora deciso se preoccuparsi o arrabbiarsi. Quell’idiota lo aveva fatto arrivare lì, spaventandolo con la storia del “ci hanno beccati”, e poi manco si faceva vedere. Cosa era tenuto a pensare lui, a quel punto? Che lo stava prendendo in giro? O che lo avevano già beccato, chiunque fossero quei loro?
«Dario!», chiamò per la terza volta, avanzando verso la sala. Ancora nessuno.
Tutto era in ordine, però. Almeno, non più in disordine del solito. Il tavolo pieno di cartaccia, due o tre libri sul pavimento, resti di spuntini non ben definiti. Mancava solo il padrone di casa.
Scostò una tenda e guardò dalla finestra. Il cielo era un po’ più scuro, tinto dalla notte imminente, e prometteva sempre pioggia, senza mantenerla. Masticò una bestemmia, per calmarsi.
«E adesso?», si chiese. «Lo chiamiamo?»
Lo chiamò. Posato contro il davanzale interno, trafficò con l’odiato cellulare, utile di tanto in tanto. Non quella volta. Il numero da lei selezionato non è al momento raggiungibile, cantilenò una voce meccanica. Soffocò l’impulso di scaraventarlo contro il muro.
Sparito e col telefono spento. Ottimo.
Si maledisse per l’ennesima volta. Era un idiota di prima categoria: idiota per essersi fidato ancora di Dario e idiota per aver voluto fare una bravata da adolescente stupido, a quarant’anni suonati. La collaborazione del secolo: l’abilità informatica dell’ingegner Ferrazzi, unita alle alte competenze del dottor Volpi, per fregare tutti i sistemi di sicurezza. Butch Cassidy e Sundance Kid, yeah!
Gianni e Pinotto, semmai.
Ci hanno beccati.
Attraversò il pianterreno a grandi passi, stanza per stanza, con la calma di un gorilla in calore, pieno di anfetamine. Niente Dario, quasi l’avessero assunto in cielo, lasciando indietro solo l’immondizia terrena.
Infilò le scale, sbuffando. Che stesse dormendo, di sopra? Roba da ucciderlo! Non sarebbe stata la prima volta che lo convocava d’urgenza, per poi dimenticarsene, come se non gliene fregasse nulla. Ma stavolta lo strozzo, si giurò.
Percorse il corridoio, aprì la porta dello studio e lo vide. Seduto al computer, la più classica delle pose dariesche. Solo che era al buio. «Dario», gli disse, accendendo la luce.
Dario non gli avrebbe risposto.
Glielo suggeriva la testa, piegata in avanti, fino a toccare le mani sulla tastiera. Glielo suggeriva il corpo, nel complesso, abbandonato come un saccone di patate. Glielo suggeriva lo schermo nero del computer: a giudicare dalle cuffie, infilate ancora nelle orecchie, in precedenza doveva essere stato acceso. Glielo confermarono infine le sue stesse dita, quando le posò sul collo dell’amico.
«Merda», commentò a freddo. Non ne avrebbero parlato di persona, poco ma sicuro. E adesso?
Un repentino attacco di fifa tremens gli impose di guardarsi attorno, frenetico. Una casa vuota, con un cadavere: se ci fosse stato pure qualcuno vivo? Per esempio, chi aveva prodotto il cadavere? Non un pensiero gradito, per Paolo. Ci hanno beccati, gli aveva detto Dario, poco prima. Possibile che lo ammazzassero per quello? Per aver frugato un po’ qui e là, nei computer altrui?
Subentrò un’altra idea. Erano passati venti minuti dalla telefonata. Doveva essere morto dopo aver chiamato. Dunque...
«Merda!», ribadì, più convinto.
Chiuse la porta e la barricò con un mobiletto. Forse non era solo, lì dentro, ma una cosa la doveva fare, prima di filare via. Probabilmente inutile, d’accordo, ma poteva anche salvargli il c**o.
Frugare lo hard disk e poi formattarlo, per cancellare ogni prova di ciò che avevano combinato. Sentite condoglianze a Dario, ma non voleva raggiungerlo subito. Volpi di nome e di fatto, per una volta in vita sua.
Stringendo i denti, sfilò la tastiera da sotto il cadavere. Accese.
Mentre aspettava che si avviasse, raccolse le carte sparpagliate sul tavolo, attorno alla stampante, e quelle che ancora ne sporgevano. Spazzatura o documenti importanti? Meglio controllare.
Guardò rapidamente. Formule e schemi strani, che uno Einstein qualunque avrebbe certo capito, in tre, quattro ore di studio. Intascò tutto: se erano inutili per lui, magari potevano non esserlo per altre persone. Magari Dario aveva fregato quei documenti da qualche parte, per esempio...
Adesso, il computer. Era morto mentre ci trafficava: non era impossibile che contenesse indizi utili. Valeva la pena di cercarli, prima di cancellare. Paolo si asciugò la fronte, fissando lo schermo.
La casa era silenzio puro. Sempre meglio che sentire dei passi, però lo metteva a disagio. Tirava una brutta aria. Facciamo in fretta, si disse, battendo i tasti con vago disgusto.
Non voleva pensare a ciò che aveva accanto, accasciato sulla sedia.
Controllò i file recenti, l’ultima data di modifica, tutto, ma non trovò nulla di interessante. Tranne una cosa. Uno strano collegamento sul desktop, etichettato come “Dario Ferrazzi”.
«Perché dev’essere così stupido, da dare il proprio nome ai programmi?», borbottò Paolo. Sapeva di non averlo visto, quando era stato lì la volta scorsa. Forse era una perdita di tempo. Però...
Quasi gli venne un colpo, lanciandolo. Non successe nulla di orribile o spaventoso: s’aprì solo una finestra di dialogo. Ma la finestra non avrebbe dovuto chiamarlo per nome.
«Paolo, sei tu?», gli chiese una stringa di testo.
Deglutì a vuoto. Cosa si deve dire a un programma, in questi casi? Non lo sapeva. Sapeva però che non gli piaceva per niente, quella storia.
«Sì, sono io», digitò in risposta. «Tu cosa sei?»
«Sapevo che saresti stato così idiota da accendere il mio computer...»
«Il tuo...», poi si morse la lingua. Guardò il corpo lì accanto. Possibile? Possibile? No, decisamente no. C'è un limite anche all'assurdo.
«Spiegami cosa significa», scrisse.
«Inutile, non lo capiresti.»
«Grazie della considerazione, eh?»
«Ci conosciamo dall'università, Paolo, lascia perdere. Non hai capito neanche i fogli sul tavolo, giusto?»
Fissò di nuovo il corpo, poi lo schermo. Possibile? Si asciugò il sudore sulla manica.
«Sei Dario?», scrisse, tremando.
«Sì.»
Cristo!
«E dove sei?»
«Al 127.0.0.1, te l'avevo detto.»
«Dunque non era la solita stupidata. Sei davvero al 127.0.0.1?»
«Non lo vedi? Mi hanno beccato, ero distratto.»
«Chi? E come? Spiegami cosa significa questa storia. Subito!»
«Un nuovo virus. Molto bello. Colpisce l'utente, non il computer. Credo sia sperimentale: è un vero onore, per me.»
«Impossibile!»
«Possibile. Opera per forme d’onda. Si salva sul disco e appena ascolti qualcosa... ti becca. Cervello formattato e memoria copiata sul computer, come file eseguibile. Hai capito?»
«No», ammise Paolo.
«Lo sapevo, ma non importa.»
«E i fogli sul tavolo? Cosa sono?», scrisse.
«Il listato del virus. Qualche ora fa lo stavo studiando, mentre ascoltavo un po’ di musica. Poi sono finito così.»
«Bella fregatura. Senti», aggiunse subito, «come hai fatto a chiamarmi, poco fa? Mi hai chiamato tu, vero?»
«Ho chiamato io. È facile telefonare tramite computer, lo dovresti sapere. Non ci vuole un genio.»
«Ma era tutto spento, quando sono arrivato.»
«Semplice blackout. Devo aver sovraccaricato la linea. Come al solito.»
«Già. Ma adesso io cosa devo fare? Non voglio finire così, se permetti.»
«Non ascoltare nulla. Lavora tramite forme d’onda, te l’ho detto. Suoni. Musiche. È una patch, che modifica ogni file audio. Altro non so.»
«Grazie tante...», digitò, aggiungendo varie bestemmie a voce. Ci mancava solo quello: preferiva il carcere, piuttosto che il cervello fritto. E in un modo così assurdo, poi...
«C’è un’altra cosa che devi fare», scrisse il programma-Dario.
«Cioè?»
«Formattami lo hard disk, ti prego.»
«Perché?»
«Perché così sparirò. Non è molto divertente, il 127.0.0.1...»
 
Rimase a lungo a fissare il corpo dell’amico, dopo aver chiuso il programma. Cosa poteva fare, ora? Costituirsi? Cancellare ogni traccia e filarsela, sperando in bene? Non aveva capito molto, di quella storia assurda, ma quel poco era più che sufficiente a terrorizzarlo. Sembrava folle, ma aveva un suo senso. Contorto, ma c’era. Quasi una legge del contrappasso.
Dario Ferrazzi era bruciato. Restavano un file sul computer e un cadavere sulla sedia, con le cuffie ancora nelle orecchie. Grottesco. Inverosimile. Concreto, purtroppo.
«Ci sei davvero, al tuo amato 127.0.0.1... E non ti piace, giusto?», mormorò, con un sorriso smorto.
Doveva formattare tutto e andarsene. Quella casa gli metteva i brividi, con la notte che calava. Però non era soddisfatto. Forse poteva scoprire qualcosa di più, per proteggersi. Mica voleva finire così anche lui! Dario era morto studiando il virus. Che avesse con sé qualche dato utile per individuarlo? Agiva tramite forme d’onda, gli aveva detto. Cioè suoni. Lo guardò meglio.
«Chissà cosa stava ascoltando», si chiese, sfilandogli le cuffie. Potrebbe essere un indizio, pensava, sistemandosele sulle orecchie, giusto per sapere a cosa devo stare attento. Paolo aprì l'ultimo file, a titolo puramente informativo.
Volpi di nome, ma non di fatto.
Adriano Marchetti
Titolo: Erba Del Vicino - Farina Del Sacco Altrui
Inserito da: ramingo - 19 Giugno 2007, 18:15:31
giusto perchè oggi è una giornata così, inserisco un pò di triste consapevolezza.

Non sono niente.
Non sarò mai niente.
Non posso volere d'essere niente.
A parte questo, ho in me tutti i sogni del mondo.
(Fernando Pessoa)

 
Titolo: Erba Del Vicino - Farina Del Sacco Altrui
Inserito da: ramingo - 19 Giugno 2007, 18:26:07
Ricordo bene il suo sguardo.
Attraversa ancora la mia anima
Come una scia di fuoco nella notte.
Ricordo bene il suo sguardo. Il resto…
Sì, il resto è solo una parvenza di vita.

Ieri ho pesseggiato per le strade come una qualsiasi persona.
Ho guardato le vetrine spensieratamente
E non ho incontrato amici con i quali parlare.
D'improvviso mi sono sentito triste, mortalmente triste,
così triste che mi è parso di non poter
vivere un altro giorno ancora, e non perché potessi morire o uccidermi,
ma solo perché sarebbe stato impossibile vivere il giorno dopo e questo è tutto.

Fumo, sogno, adagiato sulla poltrona.
Mi duole vivere in una situazione di disagio.
Debbono esserci isole verso il sud delle cose
Dove soffrire è qualcosa di più dolce,
dove vivere costa meno al pensiero,
e dove è possibile chiudere gli occhi e addormentarsi al sole
e svegliarsi senza dover pensare a responsabilità sociali
né al giorno del mese o della settimana che è oggi.

Do asilo dentro di me come a un NEMICO che temo d'offendere,
un cuore eccessivamente spontaneo
che sente tutto ciò che sogno come se fosse reale
che accompagna col piede la melodia delle canzoni che il mio pensiero canta,
tristi canzoni, come le strade strette quando piove.

(F. Pessoa - da Poesie inedite)
Titolo: Erba Del Vicino - Farina Del Sacco Altrui
Inserito da: ramingo - 19 Giugno 2007, 18:32:07
Lentamente muore

Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni
giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca, chi non
rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su
bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno
sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti
all'errore e ai sentimenti.

Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul
lavoro, chi non rischia la certezza per l'incertezza, per inseguire un
sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai
consigli sensati. Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi
non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso. Muore lentamente
chi distrugge l'amor proprio, chi non si lascia aiutare; chi passa i
giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante.

Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non
fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli
chiedono qualcosa che conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di
respirare.
Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida
felicità.

(P. Neruda)  
Titolo: Erba Del Vicino - Farina Del Sacco Altrui
Inserito da: ramingo - 09 Luglio 2007, 17:26:13
ok...
superato il momento <buio> e <strappabudella> che bene si addiceva alle poesie con cui vi ho ammorbato, voglio rendervi partecipi di una mia recente lettura notturna:
ho appena finito di leggere le cronache di narnia... bello! ve lo consiglio!
ps:il film è solo una minima parte!!!!

ecco ... c'è un piiiiiiccolo inconveniente: è un mattone di libraccio come quello del signore degli anelli però di lettura molto più leggera.

dicono del libro:
Lewis scrisse i sette volumi del Ciclo di Narnia con la dichiarata intenzione di rivolgersi a lettori bambini, ma non soltanto a loro. Era sua opinione che "un libro non merita di essere letto a dieci anni se non merita di essere letto anche a cinquanta" e questi romanzi fantastici sono davvero "libri per tutti". I bambini vi troveranno il ritmo incalzante dell'avventura e una incredibile girandola di personaggi, mentre gli adulti scopriranno un "mondo secondario", creato da uno scrittore che attinge alla grande tradizione della letteratura dell'infanzia ma anche alle allegorie dantesche.

il libro che ho letto io è:
Le cronache di Narnia
Autore: Lewis Clive S.
Anno: 2005
Editore: Mondadori

(http://www.cartonionline.com/libri/ragazzi/img/Le_cronache_di_Narnia_01.jpg)
Titolo: Erba Del Vicino - Farina Del Sacco Altrui
Inserito da: ramingo - 09 Luglio 2007, 17:50:27
un'altra lettura molto interessante e che ho condotto in parallelo con le cronache di narnia è quella di alcuni racconti di kafka (quello del commesso viaggiatore che si trasforma in bagherozzolo in le metamorfosi).

non posso resistere: ve ne inserisco uno che ho trovato on line. perdonatemi.

Il cacciatore Gracco
[Quaderno in ottavo B, fine dicembre 1916:]

Due ragazzi sedevano sul muretto del molo e giocavano a dadi. Un uomo leggeva una rivista sui gradini di un monumento all’ombra dell’eroe che brandiva la sciabola. Una ragazza alla fontana riempiva d’acqua il suo mastello. Un fruttivendolo stava accanto alla sua merce guardando verso il lago. In fondo a una bettola, attraverso porte e finestre vuote, si vedevano due uomini con del vino. L’oste sonnecchiava davanti, seduto a un tavolo. Un battello scivolò silenzioso, come se fosse trainato, dentro il piccolo porto. Un uomo vestito di una casacca blu saltò a terra e tirò le funi attraverso gli anelli. Altri due uomini, in giacca scura con bottoni d’argento, portavano dietro al capitano una bara su cui evidentemente giaceva un uomo, sotto un grande telo di seta ornato di fiori e di frange. Sul molo nessuno si curò dei nuovi arrivati, neppure quando posarono la bara per aspettare il capitano, che era ancora affaccendato con le funi, nessuno si avvicinò, nessuno rivolse loro domande, nessuno li osservò più attentamente. Il capitano fu trattenuto ancora un poco da una donna che, con un bambino al seno e i capelli sciolti, appariva ora sul ponte. Infine giunse, accennò a una casa giallastra a due piani che lì vicino, a sinistra, si alzava verticale non lontano dall’acqua, i portatori sollevarono il peso e lo trasportarono attraverso il portale basso ma formato da sottili colonne. Un ragazzino aprì una finestra, fece in tempo a notare come il gruppo scomparisse nella casa e richiuse in fretta. Anche il portale ora venne chiuso, era ben costruito con pesante legno di quercia. Uno stormo di colombe che finora aveva volato intorno al campanile si posò sulla piazza davanti alla casa. Una di esse volò fino al primo piano e picchiettò sul vetro della finestra. Erano uccelli di colore chiaro, vivaci e ben nutriti. Con grande slancio, la donna dalla barca gettò loro del grano, gli uccelli lo raccolsero e volarono verso di lei. Un uomo anziano con cilindro e fasciato a lutto scese lungo una delle stradine sottili in forte pendenza che conducevano al porto. Si guardava intorno con attenzione, tutto lo turbava, la vista di immondizia in un angolo gli piegò il viso in una smorfia, sui gradini del monumento c’erano bucce di frutta, egli le spinse giù, passando, con il bastone. Giunto al portale con colonne, bussò, togliendosi al contempo il cilindro con la destra guantata di nero. Il portone si aprì immediatamente, almeno cinquanta ragazzini formavano una fila nel lungo corridoio, inchinandosi. Il capitano scese le scale, salutò il signore, lo condusse di sopra, al primo piano fece con lui il giro del cortile circondato da logge slanciate, ed entrambi entrarono, mentre i ragazzi si affollavano a rispettosa distanza, in un grande ambiente fresco nel retro della casa, di fronte al quale si ergeva non un’altra casa, ma solo una nuda parete di roccia nerastra. I portatori erano impegnati ad alzare e accendere alcune lunghe candele alla testa della bara; non per questo si ottenne luce, ma solo furono snidate le ombre che prima riposavano, e ora ondeggiavano sulle pareti. Il telo era stato rimosso dalla bara. Giaceva là un uomo con barba e capelli cresciuti disordinatamente insieme, pelle abbronzata, di aspetto simile a un cacciatore. Giaceva immobile, apparentemente senza respirare, con gli occhi chiusi, tuttavia solo le circostanze inducevano a pensare che potesse trattarsi di un morto.

Il signore si avvicinò alla bara, pose una mano sulla fronte dell’uomo disteso, quindi si inginocchiò e pregò. Il capitano fece un cenno ai portatori perché lasciassero la stanza, quelli uscirono, cacciarono i ragazzi che si erano affollati là fuori e chiusero la porta. Ma al signore questa quiete sembrò ancora insufficiente, guardò il capitano, questi capì e attraverso una porta laterale passò nella stanza adiacente. Subito l’uomo nella bara aprì gli occhi, con un sorriso doloroso volse il capo al signore e disse: "Chi sei?" Il signore, senza stupore apparente, si alzò dalla sua posizione inginocchiata e rispose: "Il sindaco di Riva." L’uomo nella bara fece un cenno, indicò una sedia con il braccio debolmente alzato e disse, dopo che il sindaco aveva accolto il suo invito: "Naturalmente, signor sindaco, lo sapevo già, ma nel primo momento dimentico sempre tutto, tutto mi gira intorno ed è meglio che io chieda, anche quando so già tutto. Probabilmente anche lei sa che io sono il cacciatore Gracco." "Certo", disse il sindaco, "lei mi è stato annunciato stanotte. Dormivamo da parecchio, quando verso mezzanotte mia moglie esclama: "Salvatore" - così mi chiamo - "guarda la colomba alla finestra". C’era in effetti una colomba, ma grande come un gallo. Mi è volata all’orecchio e ha detto: "Domani verrà il morto cacciatore Gracco, accoglilo in nome della città."" Il cacciatore fece un cenno e passò la punta della lingua fra le labbra: "Sì, le colombe mi precedono in volo. Ma lei, signor sindaco, crede che io debba fermarmi a Riva?" "Questo non posso ancora dirlo", rispose il sindaco. "Lei è morto?" "Sì", disse il cacciatore, "come lei può notare. Molti anni fa, ora devono proprio essere moltissimi anni, nella Foresta Nera, che è in Germania, precipitai da una roccia mentre inseguivo un camoscio. Da allora sono morto." "Eppure lei è anche vivo?" disse il sindaco. "In un certo senso", disse il cacciatore, "in un certo senso sono anche vivo. La mia barca funebre ha sbagliato strada, un falso movimento del timone, un attimo di disattenzione del conducente, una deviazione nella mia meravigliosa patria, non so che cosa fu, solo questo so, che sono rimasto sulla terra e da allora la mia barca viaggia sulle acque terrene. Così io, che avrei voluto vivere solo sui miei monti, viaggio dopo la mia morte in tutti i paesi della terra." "E non ha parte alcuna dell’aldilà?" domandò il sindaco con la fronte aggrottata. "Sono sempre sulla grande scala che porta lassù," rispose il cacciatore, "su questa gradinata infinitamente ampia io mi aggiro, ora su ora giù, ora a destra ora a sinistra, sempre in movimento. Ma se prendo uno slancio decisivo verso l’alto, e già la porta mi risplende lassù, allora mi risveglio nella mia vecchia barca, che ristagna desolata in qualche acqua terrestre. L’errore di fondo della mia morte di un tempo mi deride nella mia cabina, Julia, la moglie del capitano, mi porta alla mia bara la bevanda mattutina del paese la cui costa stiamo attraversando." "Un brutto destino", disse il sindaco con la mano alzata come per difendersi. "E lei non ne ha colpa?" "Nessuna", disse il cacciatore, "ero un cacciatore, forse è una colpa questa? Praticavo la caccia nella Foresta Nera, dove a quei tempi c’erano anche i lupi. Tendevo agguati, tiravo, colpivo, scuoiavo, è forse una colpa? Il mio lavoro era benedetto. Mi chiamavano il grande cacciatore della Foresta Nera. E’ forse una colpa?" "Non è compito mio deciderlo", disse il sindaco, "ma neppure a me tutto questo sembra una colpa. Ma allora di chi è la colpa?" "Del barcaiolo", disse il cacciatore



"E ora lei pensa di rimanere da noi a Riva?" chiese il sindaco. "Io non penso", disse il cacciatore sorridendo, e per attenuare lo scherzo pose la mano sul ginocchio del sindaco. "Io sono qui, altro non so, altro non posso fare. La mia barca è senza timone, viaggia con il vento che soffia nelle regioni più basse della morte."



Io sono il cacciatore Gracco, la mia patria è la Foresta Nera in Germania.



Nessuno leggerà ciò che io scrivo qui; nessuno verrà ad aiutarmi; se fosse stabilito come compito di aiutarmi, allora tutte le porte di tutte le case rimarrebbero chiuse, tutte le finestre chiuse, tutti sarebbero nei loro letti, con le coperte gettate sulla testa, tutta la terra sarebbe un dormitorio. Ciò è ben comprensibile, perché nessuno sa di me, e se qualcuno sapesse non saprebbe però dove abito, e se sapesse dove abito non saprebbe però trattenermi là, e se sapesse trattenermi là non saprebbe però come venirmi in aiuto. Il pensiero di volermi aiutare è una malattia e deve essere curata a letto.

Questo io lo so e dunque non scrivo per procurarmi un aiuto, sebbene in certi momenti in cui non mi controllo, come per esempio proprio ora, mi viene da pensarci con forza. Ma per cacciare simili pensieri basta che io mi guardi intorno e mi rammenti dove sono e dove abito - posso ben dirlo - da secoli. Mentre scrivo tutto questo sono sdraiato su una panca di legno, indosso - non è un piacere vedermi - una camicia funebre sporca, capelli e barba, grigi e neri, crescono insieme inestricabili, le mie gambe sono coperte da un telo da donna di seta, ornato di fiori e frange. Alla mia testa si trova una candela da chiesa che mi fa luce. Sul muro davanti a me c’è un piccolo quadro, evidentemente un boscimano, che con una lancia prende la mira su di me e per quanto può si copre dietro uno scudo grandiosamente decorato. Sulle navi si trovano spesso quadri stupidi, ma questo è uno dei più stupidi. Per il resto la mia gabbia di legno è completamente vuota. Attraverso un oblò della parete laterale arriva l’aria calda della notte meridionale e ascolto l’acqua che batte contro la vecchia barca.

Qui io giaccio da allora, quando, mentre ero ancora il vivo cacciatore Gracco, precipitai inseguendo un camoscio nella patria Foresta Nera. Tutto andava secondo l’ordine delle cose. Io inseguivo, precipitai, mi dissanguai in una scarpata, morii e questa barca doveva trasportarmi nell’aldilà. Ricordo ancora con quanta felicità mi sono sdraiato per la prima volta su questa panca, i monti non avevano ancora mai udito da me un canto come quello che udivano queste quattro pareti, allora ancora al crepuscolo. Volentieri ero vissuto e volentieri ero morto, prima di salire a bordo lieto gettai via da me l’impiccio del fucile, della borsa e della veste da caccia che sempre avevo portato con orgoglio, ed entrai nella camicia funebre come una fanciulla nella veste nuziale. Giacevo qui e aspettavo.

[tratto dal sito http://www.kafka.org/index.php?gracco (http://www.kafka.org/index.php?gracco)]
Titolo: Erba Del Vicino - Farina Del Sacco Altrui
Inserito da: ramingo - 27 Luglio 2007, 15:31:02
solo per ilgiudice:

Il silenzio delle sirene

[1917]

Per dimostrare che anche mezzi insufficienti, persino puerili, possono procurare la salvezza:
Per difendersi dalle sirene Ulisse si empì le orecchie di cera e si fece incatenare all’albero maestro. Qualcosa di simile avrebbero potuto fare beninteso da sempre tutti i viaggiatori, tranne quelli che le sirene adescavano già da lontano, ma in tutto il mondo si sapeva che ciò era assolutamente inutile. Il canto delle sirene penetrava dappertutto, e la passione dei sedotti avrebbe spezzato altro che catene e alberi maestri! Ma non a questo pensò Ulisse, benché forse ne avesse sentito parlare. Aveva piena fiducia in quella manciata di cera e nei nodi delle catene e, con gioia innocente per quei suoi mezzucci, navigò incontro alle sirene.
Sennonché le sirene possiedono un’arma ancora più temibile del canto, cioè il loro silenzio. Non è avvenuto, no, ma si potrebbe pensare che qualcuno si sia salvato dal loro canto, ma non certo dal loro silenzio. Nessun mortale può resistere al sentimento di averle sconfitte con la propria forza e al travolgente orgoglio che ne deriva.
Di fatti all’arrivo di Ulisse le potenti cantatrici non cantarono, sia credendo che tanto avversario si potesse sopraffare solo col silenzio, sia dimenticando affatto di cantare alla vista della beatitudine che spirava il viso di Ulisse, il quale non pensava ad altro che a cere e catene.
Egli invece, diremo così, non udì il loro silenzio, credette che cantassero e immaginò che lui solo  fosse preservato dall’udirle. Di sfuggita le vide girare il collo, respirare profondamente, notò i loro occhi pieni di lacrime, le labbra socchiuse, e reputò che tutto ciò facesse parte delle melodie che, non udite, si perdevano intorno a lui. Ma tutto ciò sfiorò soltanto il suo sguardo fisso alla lontananza, le sirene scomparvero, per così dire, di fronte alla sua risolutezza, e proprio quando era loro più vicino, egli non sapeva più nulla di loro.
Esse invece, più belle che mai, si stirarono, si girarono, esposero al vento i terrificanti capelli sciolti e allargarono gli artigli sopra le rocce. Non avevano più voglia di sedurre, volevano solo ghermire il più a lungo possibile lo splendore riflesso dagli occhi di Ulisse.
Se le sirene fossero esseri coscienti,quella volta sarebbero rimaste annientate. Sopravvissero invece,e avvenne soltanto che Ulisse potesse scampare.
La tradizione però aggiunge qui ancora un’appendice. Ulisse, dicono, era così ricco di astuzie, era una tale volpe che nemmeno il Fato poteva prenotare nel suo cuore. Può darsi – benché ciò non riesca comprensibile alla mente umana – che realmente si sia accorto che le sirene tacevano e in un certo qual modo abbia soltanto opposto come uno scudo a loro e agli stessi dei la sopra descritta finzione.

KAFKA
 
Titolo: Erba Del Vicino - Farina Del Sacco Altrui
Inserito da: Massimiliano - 16 Maggio 2008, 21:50:13
By Ramingo...

Codice: [Seleziona]
Amori che mentre vivono si annoiano del momento e non si vedono.
Amori che ridono quando si rendono conto di non essere tali...
Amori da soli.

(T.Santucci)


(http://img157.imageshack.us/img157/7779/paroleimmaginiforum1on0.jpg)

(http://img206.imageshack.us/img206/9083/paroleimmaginiforum3kf7.jpg)

(http://img157.imageshack.us/img157/7396/paroleimmaginiforum2tg7.jpg)
Titolo: Erba Del Vicino - Farina Del Sacco Altrui
Inserito da: ramingo - 16 Luglio 2008, 23:30:49
Edgar Pöe
Il Corvo

Traduzione di Antonio Bruno


I.

Una volta in una fosca mezzanotte, mentre io meditavo, debole e stanco,
sopra alcuni bizzarri e strani volumi d'una scienza dimenticata;
mentre io chinavo la testa, quasi sonnecchiando - d'un tratto, sentii un colpo leggero,
come di qualcuno che leggermente picchiasse - pichiasse alla porta della mia camera.
-- « È qualche visitatore - mormorai - che batte alla porta della mia camera » --
Questo soltanto, e nulla più.

II.

Ah! distintamente ricordo; era nel fosco Dicembre,
e ciascun tizzo moribondo proiettava il suo fantasma sul pavimento.
Febbrilmente desideravo il mattino: invano avevo tentato di trarre
dai miei libri un sollievo al dolore - al dolore per la mia perduta Eleonora,
e che nessuno chiamerà in terra - mai più.

III.

E il serico triste fruscio di ciascuna cortina purpurea,
facendomi trasalire - mi riempiva di tenori fantastici, mai provati prima,
sicchè, in quell'istante, per calmare i battiti del mio cuore, io andava ripetendo:
« È qualche visitatore, che chiede supplicando d'entrare, alla porta della mia stanza.
« Qualche tardivo visitatore, che supplica d'entrare alla porta della mia stanza;
è questo soltanto, e nulla più ».

IV.

Subitamente la mia anima divenne forte; e non esitando più a lungo:
« Signore - dissi - o Signora, veramente io imploro il vostro perdono;
« ma il fatto è che io sonnecchiavo: e voi picchiaste sì leggermente,
« e voi sì lievemente bussaste - bussaste alla porta della mia camera,
« che io ero poco sicuro d'avervi udito ». E a questo punto, aprii intieramente la porta.
Vi era solo la tenebra, e nulla più.

V.

Scrutando in quella profonda oscurità, rimasi a lungo, stupito impaurito
sospettoso, sognando sogni, che nessun mortale mai ha osato sognare;
ma il silenzio rimase intatto, e l'oscurità non diede nessun segno di vita;
e l'unica parola detta colà fu la sussurrata parola «Eleonora!»
Soltanto questo, e nulla più.

VI.

Ritornando nella camera, con tutta la mia anima in fiamme;
ben presto udii di nuovo battere, un poco più forte di prima.
« Certamente - dissi - certamente è qualche cosa al graticcio della mia finestra ».
Io debbo vedere, perciò, cosa sia, e esplorare questo mistero.
È certo il vento, e nulla più.

VII.

Quindi io spalancai l'imposta; e con molta civetteria, agitando le ali,
si avanzò un maestoso corvo dei santi giorni d'altri tempi;
egli non fece la menoma riverenza; non esitò, nè ristette un istante
ma con aria di Lord o di Lady, si appollaiò sulla porta della mia camera,
s'appollaiò, e s'installò - e nulla più.

VIII.

Allora, quest'uccello d'ebano, inducendo la mia triste fantasia a sorridere,
con la grave e severa dignità del suo aspetto:
« Sebbene il tuo ciuffo sia tagliato e raso - io dissi - tu non sei certo un vile,
« orrido, torvo e antico corvo errante lontanto dalle spiagge della Notte
« dimmi qual'è il tuo nome signorile sulle spiagge avernali della Notte! »
Disse il corvo: « Mai più ». (1)

(1) In inglese è «no more» che ha molto del gracchiare del corvo.

IX.

Mi meravigliai molto udendo parlare sì chiaramente questo sgraziato uccello,
sebbene la sua risposta fosse poco sensata - fosse poco a proposito;
poichè non possiamo fare a meno d'ammettere, che nessuna vivente creatura umana,
mai, finora, fu beata dalla visione d'un uccello sulla porta della sua camera,
con un nome siffatto: « Mai più ».

X.

Ma il corvo, appollaiato solitario sul placido busto, profferì solamente
quest'unica parola, come se la sua anima in quest'unica parola avesse effusa.
Niente di nuovo egli pronunziò - nessuna penna egli agitò -
finchè in tono appena più forte di un murmure, io dissi: « Altri amici mi hanno già abbandonato,
domani anch'esso mi lascerà, come le mie speranze, che mi hanno già abbandonato ».
Allora, l'uccello disse: « Mai più ».

XI.

Trasalendo, perchè il silenzio veniva rotto da una risposta sì giusta:
« Senza dubbio - io dissi - ciò ch'egli pronunzia è tutto il suo sapere e la sua ricchezza,
« presi da qualche infelice padrone, che la spietata sciagura
« perseguì sempre più rapida, finchè le sue canzoni ebbero un solo ritornello,
« finchè i canti funebri della sua Speranza ebbero il malinconico ritornello:
« Mai, - mai più ».

XII.

Ma il corvo inducendo ancora tutta la mia triste anima al sorriso,
subito volsi una sedia con ricchi cuscini di fronte all'uccello, al busto e alla porta;
quindi, affondandomi nel velluto, mi misi a concatenare
fantasia a fantasia, pensando che cosa questo sinistro uccello d'altri tempi,
che cosa questo torvo sgraziato orrido scarno e sinistro uccello d'altri tempi
intendea significare gracchiando: « Mai più ».

XIII.

Così sedevo, immerso a congetturare, senza rivolgere una sillaba
all'uccello, i cui occhi infuocati ardevano ora nell'intimo del mio petto;
io sedeva pronosticando su ciò e su altro ancora, con la testa reclinata adagio
sulla fodera di velluto del cuscino su cui la lampada guardava fissamente;
ma la cui fodera di velluto viola, che la lampada guarda fissamente
Ella non premerà, ah! - mai più!

XIV.

Allora mi parve che l'aria si facesse più densa, profumata da un incensiere invisibile,
agiato da Serafini, i cui morbidi passi tintinnavano sul soffice pavimento,
- « Disgraziato! - esclamai - il tuo Dio per mezzo di questi angeli ti à inviato
« il sollievo - il sollievo e il nepente per le tue memorie di Eleonora!
« Tracanna, oh! tracanna questo dolce nepente, e dimentica la perduta Eleonora!
Disse il corvo: « Mai più ».

XV.

- « Profeta - io dissi - creatura del male! - certamente profeta, sii tu uccello o demonio! -
- « Sia che il tentatore l'abbia mandato, sia che la tempesta t'abbia gettato qui a riva,
« desolato, ma ancora indomito, su questa deserta terra incantata
« in questa visitata dall'orrore - dimmi, in verità, ti scongiuro -
« Vi è - vi è un balsamo in Galaad? dimmi, dimmi - ti scongiuro. -
Disse il corvo: « Mai più ».

XVI.

- « Profeta! - io dissi - creatura del male! - Certamente profeta, sii tu uccello o demonio!
« Per questo Cielo che s'incurva su di noi - per questo Dio che tutti e due adoriamo -
« dì a quest'anima oppressa dal dolore, se, nel lontano Eden,
« essa abbraccerà una santa fanciulla, che gli angeli chiamano Eleonora,
« abbraccerà una rara e radiosa fanciulla che gli angeli chiamano Eleonora ».
Disse il corvo: « Mai più ».

XVII.

- « Sia questa parola il nostro segno d'addio, uccello o demonio! » - io urlai, balzando in piedi.
« Ritorna nella tempesta e sulla riva avernale della notte!
« Non lasciare nessuna piuma nera come una traccia della menzogna che la tua anima ha profferita!
« Lascia inviolata la mia solitudine! Sgombra il busto sopra la mia porta!
Disse il corvo: « Mai più ».

XVIII.

E il corvo, non svolazzando mai, ancora si posa, ancora è posato
sul pallido busto di Pallade, sovra la porta della mia stanza,
e i suoi occhi sembrano quelli d'un demonio che sogna;
e la luce della lampada, raggiando su di lui, proietta la sua ombra sul pavimento,
e la mia, fuori di quest'ombra, che giace ondeggiando sul pavimento
non si solleverà mai più!
 
Titolo: Erba Del Vicino - Farina Del Sacco Altrui
Inserito da: ramingo - 17 Luglio 2008, 00:54:27
Se qualcuno ama un fiore, di cui esiste un solo esemplare in milioni e milioni di stelle,
questo basta per farlo felice quando lo si guarda..

Antoine de Saint-Exupéry
 
Titolo: Erba Del Vicino - Farina Del Sacco Altrui
Inserito da: ramingo - 27 Luglio 2008, 23:36:48
PADRE, SE ANCHE TU NON FOSSI IL MIO
(Camillo Sbarbaro)



Padre, se anche tu non fossi il mio
Padre se anche fossi a me un estraneo,
per te stesso egualmente t'amerei.
Ché mi ricordo d'un mattin d'inverno
Che la prima viola sull'opposto
Muro scopristi dalla tua finestra
E ce ne desti la novella allegro.
Poi la scala di legno tolta in spalla
Di casa uscisti e l'appoggiasti al muro.
Noi piccoli stavamo alla finestra.

E di quell'altra volta mi ricordo
Che la sorella mia piccola ancora
Per la casa inseguivi minacciando
(la caparbia aveva fatto non so che).
Ma raggiuntala che strillava forte
Dalla paura ti mancava il cuore:
ché avevi visto te inseguir la tua
piccola figlia, e tutta spaventata
tu vacillante l'attiravi al petto,
e con carezze dentro le tue braccia
l'avviluppavi come per difenderla
da quel cattivo che eri il tu di prima.

Padre, se anche tu non fossi il mio
Padre, se anche fossi a me un estraneo,
fra tutti quanti gli uomini già tanto
pel tuo cuore fanciullo t'amerei.

 
Titolo: Erba Del Vicino - Farina Del Sacco Altrui
Inserito da: ramingo - 08 Settembre 2008, 19:36:04
tratto dalle cronache di narnia:il leone, la strega e l'armadio

- Cosa sei? - ripetè la regina. - Un nano più alto degli altri a cui hanno tagliato la barba?
- No, Maestà- rispose Edmund. - Non ho mai avuto la barba. Sono ancora un ragazzo.
- Un ragazzo! - esclamò la signora. - Vuoi dire che sei un figlio di Adamo?
Edmund rimase fermo e zitto. Era troppo confuso per capire il senso della domanda.
- Chiunque tu sia, sei un idiota e lo vedo- scattò la regina.- Rispondimi, una volta
per tutte, o perderò la pazienza. Sei un essere umano?
-Si, sua Maestà- rispose subito Edmund.

[...]

-Vuoi bere qualcosa di caldo?- chiese lei.
-Grazie, Maestà - rispose Edmund che batteva i denti dal freddo.
La regina tirò fuori una fiaschetta che pareva fatta di rame, allungò il braccio e
lasciò cadere vicino alla slitta una goccia del suo contenuto. Edmund vide la goccia
brillare a mezz'aria, fulgida come un diamante, ma quando toccò il suolo coperto di
neve ci fu un sibilo e un attimo dopo, al suo posto, c'era una coppa tempestata di
gemme preziose e piena di un liquido fumante. Il nano la prese immediatamente e
la porse al ragazzo facendo un bell'inchino, ma con un sorriso tutt'altro che
simpatico.

[...]

-Figlio di Adamo, non è bello bere senza mangiare nulla- disse allora la regina.
-Cosa ti piacerebbe?
-Mangerei volentieri delle gelatine di frutta, Maestà- rispose lui.
La regina allungò di nuovo il braccio e lasciò cadere un'altra goccia di liquido.
Subito, sulla neve apparve una scatola rotonda, legata con un nastro di seta verde.
Era piena dei più bei dolci che Edmund avesse mai visto: saranno stati almeno due
chili. Ognuno era semplicemente perfetto: chiaro e trasparente sotto il velo di
zucchero, leggero, gommoso al punto giusto e squisito. Edmund non ne aveva
mangiati di così buoni.

[...]

Quando le gelatine di frutta furono finite Edmund fissò la scatola vuota, sperando
che lei chiedesse se ne voleva ancora. La regina conosceva benissimo il desiderio
del ragazzo, perchè i dolci erano stregati e chiunque ne mangiasse una volta
continuava a volerne fino a scoppiare. Ma questa volta era diverso: la regina
voleva delle risposte.


 :blink:
Titolo: Erba Del Vicino - Farina Del Sacco Altrui
Inserito da: Massimiliano - 09 Settembre 2008, 13:27:07
Azz e fino a mo edmund che aveva fatto???

Ah le femmine! hihihihi

Ciao!

p.s.: Edmund è fesso.... indipendendemente da tutto! :P
Titolo: Erba Del Vicino - Farina Del Sacco Altrui
Inserito da: ramingo - 09 Settembre 2008, 20:07:42
un pò di sano pensiero nero...

(http://www.tecalibri.info/G/I/GREEN-J_fossi4.gif)

Autore   Julien Green
Titolo   Se fossi in te...

lo compriamo?

articolo del 1998 - moriva a 97 anni (http://archiviostorico.corriere.it/1998/agosto/18/Julien_Green_profeta_inattuale_co_0_9808185183.shtml)

citazione:
Julien Green: "è sempre legittimo augurare all'altro ciò che è per te un bene o una gioia: se pensi di offrire un vero dono, non frenare la tua mano".
Certo, questo deve avvenire sempre nel rispetto della libertà e dei diversi percorsi che l'altro segue.
[tratto da fonte (http://it.wikipedia.org/wiki/Oremus_et_pro_perfidis_Judaeis)]

Julien Green: "Sapevo che contavamo poco di fronte all’universo, sapevo che non eravamo nulla; ma l’essere così incommensurabilmente nulla sembra in qualche modo schiacciante e al tempo stesso rassicurante. Quelle figure, quelle dimensioni oltre la portata del pensiero umano, sono totalmente soverchianti. Esiste qualcosa a cui possiamo aggrapparci? In mezzo al caos di illusioni, in cui veniamo gettati a capofitto, una cosa sola si profila come vera, ed è l’amore.
Tutto il resto è Nulla, un vuoto. Scrutiamo in un immenso e nero abisso.
E abbiamo paura."
[tratto da
 
fonte (http://furiogalli.splinder.com/tag/pizzini)]
 
Titolo: Erba Del Vicino - Farina Del Sacco Altrui
Inserito da: ramingo - 10 Settembre 2008, 20:15:46
In Dormiveglia

Di G. Ungaretti

 

Assisto la notte violentata

 

L’aria è crivellata

come una trina

dalle schioppettate

degli uomini

ritratti

nelle trincee

come le lumache nel loro guscio

 

Mi pare

che un affannato

nugolo di scalpellini

batta il lastricato

di pietra di lava

delle mie strade

ed io l’ascolti

non vedendo

in dormiveglia


 
Titolo: Erba Del Vicino - Farina Del Sacco Altrui
Inserito da: ramingo - 07 Novembre 2008, 13:38:31
La cosa piu' ingiusta della vita è come finisce.
Voglio dire: la vita è dura e impiega la maggior parte del nostro tempo...
Cosa ottieni alla fine? La morte.
Che significa ! Che cos'è la morte ?
Una specie di bonus per aver vissuto?
Credo che il ciclo vitale dovrebbe essere del tutto rovesciato.
Bisognerebbe iniziare morendo, così ci si leva subito il pensiero.
Poi in un ospizio dal quale si viene buttati fuori perchè troppo giovani.
Ti danno una gratifica e quindi cominci a lavorare e per quarant'anni, fino a che sarai sufficientemente giovane per goderti la pensione Seguono, feste, alcool, erba ed il liceo.
Finalmente cominciano le elementari, diventi bambino, giochi e non hai responsabilità, diventi un neonato, ritorni nel ventre di tua madre, passi i tuoi ultimi nove mesi galleggiando e finisci il tutto con un bell'orgasmo!

Woody Allen
Titolo: Erba Del Vicino - Farina Del Sacco Altrui
Inserito da: ramingo - 12 Dicembre 2008, 14:17:53
Autore: Martha Medeiros
Titolo: Ode alla Vita



Lentamente muore
chi diventa schiavo dell'abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marcia,
chi non rischia e cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero su bianco
e i puntini sulle "i"
piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore
davanti all'errore e ai sentimenti.

Lentamente muore
chi non capovolge il tavolo,
chi è infelice sul lavoro,
chi non rischia la certezza per l'incertezza per inseguire un sogno,
chi non si permette almeno una volta nella vita, di fuggire ai consigli sensati.

Lentamente muore chi non viaggia,
chi non legge,
chi non ascolta musica,
chi non trova grazia in se stesso.

Muore lentamente chi distrugge l'amor proprio,
chi non si lascia aiutare
chi passa i giorni a lamentarsi
della propria sfortuna o della pioggia incessante.

Lentamente muore
chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,
chi non fa domande sugli argomenti che non conosce,
chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi,
ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare.

Soltanto l'ardente pazienza
porterà al raggiungimento
di una splendida felicità.



SPOT PAMPERO (con citazioni della poesia) (http://it.youtube.com/watch?v=3yQWcnYlvQA)
Titolo: Erba Del Vicino - Farina Del Sacco Altrui
Inserito da: ramingo - 04 Febbraio 2009, 17:16:26
:blink:

Qualunque cosa distrugga la libertà non è amore. Deve trattarsi di altro, perché amore e libertà vanno a braccetto, sono due ali dello stesso gabbiano.
(osho)


Mai nato - Mai morto - Ha solo visitato il pianeta Terra tra l'11 dicembre 1931 e il 19 gennaio 1990.

Con queste parole immortali, Osho detta il suo epitaffio e allo stesso tempo elimina la necessità di una biografia. Dopo aver cancellato il suo nome, accetta alla fine il termine "Osho" spiegando che esso deriva da "oceanico", come lo usa William James. "Non è il mio nome" afferma "è un suono di guarigione".
Le migliaia di ore di discorsi estemporanei, presentati a persone di tutto il mondo per un periodo di vent'anni, sono tutti registrati, spesso anche in video, e possono essere ascoltati da chiunque in qualsiasi posto, creando, come dice Osho, "ovunque lo stesso silenzio".
Le trascrizioni di questi discorsi sono ora pubblicati in centinaia di libri in dozzine di lingue diverse. In questi discorsi, la mente umana viene messa al microscopio come mai prima, analizzata nelle sue pieghe più sottili. La mente come psicologia, la mente come emozione, la mente come corpo/mente, la mente come moralista, la mente come storia, la mente come credo, la mente come religione, la mente come evoluzione sociale e politica - il tutto esaminato, studiato e integrato. E poi lasciato alle spalle con grazia nel viaggio fondamentale verso la trascendenza.
Nel corso di questo processo Osho mette allo scoperto l'ipocrisia e le falsità dovunque le incontri. Come dice in modo eloquente lo scrittore Tom Robbins: "Riconosco la brezza smeraldina quando scuote le mie finestre. Osho è come un vento teso e dolce che percorre il pianeta, facendo volare via le teste di rabbini e papi, sparpagliando le bugie sulle scrivanie dei burocrati, mettendo in fuga precipitosa gli asini nelle stalle dei potenti, sollevando le gonne dei moralisti e facendo il solletico a chi è spiritualmente morto per farlo tornare in vita."



fonte (http://www.macrolibrarsi.it/autori/_osho.php)
Titolo: Erba Del Vicino - Farina Del Sacco Altrui
Inserito da: ramingo - 15 Febbraio 2009, 18:10:40
Karin Boye, Poesie  Il nuovo melograno, Ed. Le Lettere, Firenze, 1994


La scrittrice della “dialettica degli opposti”
di Valeria Consoli
Karin Boye nel 1920 a Uppsala
Incline alla psicologìa, all’etica e alla religione, nello specifico al Buddismo, Karin Boye nasce a Göteborg. Coltiva gli studi umanistici presso l’Università di Uppsala. Studia il greco la storia della letteratura e il norreno, le leggende e i cicli mitologici dell’epopea scandinava e introietta una dialettica degli opposti, che si esplicita nella concezione di ‘bene’ e di ‘male’, di vita e di morte.
Il più noto dei cinque romanzi da lei scritti, Kallocaina, si distingue dalle altre ‘distopìe’ per la concezione della dittatura, che nel romanzo di Karin Boye agisce come un qualcosa di interno all’animo del protagonista.
Esponente di Clarté, cultrice dell'Ellade, muore suicida all'indomani dell'invasione nazista della Grecia.
Questo contributo fa parte di un'articolata analisi che, insieme a Fausta Cialente, Hella Haasse, Gertrud Kolmar, Helga Schneider e Alki Zei Valeria Consoli allarga ad abbracciare alcune figure femminili significative della letteratura europea del Novecento.

Come posso dire se la tua voce è bella
So soltanto che mi penetra
E mi fa tremare come una foglia
E mi lacera e mi dirompe.

Cosa so della tua pelle e delle tue membra.
Mi scuote soltanto che sono tue,
così che per me non c’è sonno né riposo,
finchè non saranno mie. (1)

atmosfera saffica, cui questi versi ci fanno riandare col pensiero, rappresenta forse la chiave di lettura più appropriata per accostarci all’opera e alla vita di questa poetessa e scrittrice svedese, notissima in patria e pressocchè sconosciuta in Italia.

Accomunata in ciò dal poco felice destino riservato agli artisti suoi compatrioti ed, in genere, originari dai Paesi dell’Europa del Nord, i quali (fatto salvo per alcune felici eccezioni, come il regista Ingmar Bergmann, i drammaturghi Henrik Ibsen ed August Strindberg, il musicista Edvard Grieg, il pittore Edvard Munch e – last but not least - le scrittrici Selma Lagerlof, Sigrid Unset, Karen Blixen) sono stati il più delle volte misconosciuti da un pubblico – quello nostro – sotto quest’aspetto forse meno esigente di altri, dato il carattere speculativo e le problematiche esistenziali da quelli trattate, il più delle volte in contrasto con la ‘solarità’ latina, Karin Boye è stata recentemente riproposta all’attenzione dei lettori italiani dalla Casa Editrice Iperborea (2), che ne ha pubblicato Kallocaina (3), il più noto dei cinque romanzi da lei scritti.

Nata a Göteborg, nel Sud della Svezia, da una famiglia di origine tedesca per parte paterna – il nonno era stato Console di Prussia – il 26 ottobre del 1900, mostra fin dall’adolescenza una notevole inclinazione per la psicologìa, l’etica e la religione, nello specifico per il Buddismo.

Coltiva successivamente gli studi umanistici presso l’Università di Uppsala, dove accanto al greco ed alla storia della letteratura apprende il norreno (4) con tutto quel bagaglio di leggende e cicli mitologici caratterizzanti l’epopea scandinava e che contribuiscono senza alcun dubbio a farle precocemente introiettare quella dialettica degli opposti, che si esplicita in lei massimamente nella concezione di ‘bene’ e di ‘male’, di vita e di morte: convinzione questa, cui Karin Boye era pervenuta anche attraverso la lettura di Zarathustra di Federico Nietzsche, da lei definito ‘il nuovo Colombo’ e che le infonde quel culto per la Grecia classica, che nel 1938 - dopo un lungo viaggio avente come prime tappe Berlino, Praga e Istambul - la porta a materializzare e a vivere il sogno dell’Ellade – come lei stessa lo definiva – e a calpestare il sacro suolo di quella, che riteneva essere la culla della civiltà europea: sogno, che in lei si infrange di lì a poco, allorchè – siamo già in piena guerra – la raggiunge ad Alingsas, piccola località nei pressi di Göteborg, dove si era rifugiata presso un’amica inferma, la notizia ferale che le truppe naziste hanno invaso la Grecia: è il 23 aprile del 1941 e, nella quiete della natura, Karin Boye trova la morte.

Accomunata dalla problematica del suicidio a Virginia Woolf, che per una funesta coincidenza si toglie la vita di lì a poco, il 28 aprile, ed a Marina Cvetaeva, che lo porta a compimento nel giugno dello stesso anno, la Boye aveva spesso sostenuto

      ‘Io non voglio morire, ma devo. Non posso vivere, rendo tutti infelici’ (5)

Sull’individuo grava pertanto una sorta di Anankhe (6), che ne fa in questo modo un ‘capro espiatorio’ – l’antico tràgos per l’appunto - che si offrirebbe in un ‘Sacrificio Volontario’ all’intera società.

A tale assunto Karin Boye perviene in Kallocaina, un romanzo avveniristico con elementi di ‘realismo magico’, che demandano ad una matrice kafkiana.

   
Alcune pagine della rivista culturale «Clarté», pubblicata dal movimento omonimo, di cui Karin Boyle fu uno degli esponenti più significativi, tra il 1926 e il 1927
   
Già a partire dalla fine dell’Ottocento, dapprima in ambito prettamente anglosassone quindi progressivamente un po’ in tutto l’Occidente, sorge il concetto di distopìa ovvero dell’’Utopìa negativa’ : i primi segni di questo mutamento psicologico di clima si evidenziano già in Samuel Butler piuttosto che in Herbert George Wells (1866-1946) (autori, in cui tuttavia permane la speranza di un riscatto della sociètà) (7), ma è soprattutto con Aldous Huxley, l’autore di Il mondo nuovo (8), con Noi del russo Eugénij I.Zamjatin (9) e - forse il più famoso di tutti – con 1984 di George Orwell.(10) , che si vengono a delineare le caratteristiche di un sistema totalitario pieno di incognite, cui certo non è estranea l’esperienza del modello comunista russo, di cui nel 1938 Karin Boye era venuta a conoscenza nel corso di uno dei suoi tanti viaggi per l’Europa come esponente di Clartè (11), il movimento culturale e pacifista di cui in Svezia era stata uno dei rappresentanti più significativi, e che di certo lei, che si autodefiniva uno spirito libero, aveva se non del tutto, ma in buona parte disapprovato.

Ciò che distingue Kallocaina (1940) dalle altre ‘distopìe’ è tuttavia la concezione stessa della dittatura, che nel romanzo di Karin Boye non si esplicita come un elemento puramente esteriore, bensì agisce come un qualcosa di interno all’animo del protagonista.

In un’epoca indefinita della Storia – ma si potrebbe pensare ad un futuro abbastanza prossimo rispetto al momento, in cui il romanzo è stato scritto, il 1940 – in uno Stato ormai universale senza più confini o frontiere, lo scienziato quarantenne Leo Kall mette a punto una sorta di ‘siero della verità’ – da lui perciò chiamato kallocaina – che avrebbe il compito di garantirne la stabilità e la sicurezza, ma i cui esiti si rivelano via via sempre più sconvolgenti: non soltanto infatti la verità finisce per sfuggire ad ogni strumentalizzazione, ma evidenzia sempre più la complessità e l’inafferrabilità dei rapporti umani e soprattutto dei rapporti tra le persone che maggiormente stanno a cuore.

Da qui l’inevitabile presa di coscienza da parte del protagonista che Verità e Potere restano due assiomi inconciliabili, mentre a poco a poco il suo granitico ‘Super-io’ comincia a cedere il posto a quei sentimenti che fino ad allora si era costantemente negato: la fede nell’amore, nella libertà ed in tutti quegli ideali, senza i quali anche l’esistenza umana perde di valore e di significato.

Per Karin Boye ‘libertà’ significa agire in modo conforme alla propria natura: pertanto (anche se ciò può sembrare una contraddizione in termini!) l’unica via da seguire è quella della necessità, dell’ Anankhe (12) sopra accennato, che condurrà anche lei a quel ‘Sacrificio Volontario’, che caratterizza i protagonisti del romanzo, i quali in verità - più che rappresentare dei veri e propri personaggi, assurgono a ‘portatori’ di ideologìe e di valori.

Ma è senza alcun dubbio nell’analisi del rapporto estremamente contraddittorio, che Leo Kall manifesta nei confronti della moglie Linda, che l’assunto della vicenda raggiunge il suo acme, connotandosi di toni drammatici:

      «Si ha un bel parlare dell’ “amore” come di un concetto antiquato e romantico, ma io temo che esista, e che contenga, fin dall’inizio, un elemento di indicibile dolore. Un uomo è attratto da una donna, una donna da un uomo, e per ogni passo che compiono avvicinandosi, sacrificano una parte di sé; una serie di sconfitte, dove non si aspettavano che vittorie» (13)

      «Sogno spesso di tornare ragazza e di soffrire di un amore infelice. Sai che è invidiabile essere giovani e amare senza speranza, anche se al momento non lo si capisce?Una ragazza giovane crede che ci sia qualcos’altro, una libertà che deve venire con l’amore, un rifugio che troverà nell’uomo che ama, una sorta di calore e di riposo – qualcosa che non esiste. Un amore infelice, che dà quella confortante disperazione di non aver avuto fortuna con la persona amata, ma lasciando la convinzione che altri possano averla avuta, e che esiste, e che si può avere. (…) Ma un amore felice conduce al vuoto. Non c’è più uno scopo, non c’è che la solitudine; e perché poi dovrebbe esserci qualcos’altro, perché dovrebbe esserci un senso per ciascuno di noi? Ti ho amato troppo, Leo, e così non ci sei neanche tu. Credo che ora potrei ucciderti.» (14)

Karin Boye (al centro) a una festa di Clartè
Se lo svisceramento e la dissezione progressiva delle problematiche, che si agitano intorno al sesso, al matrimonio ed ai rapporti sentimentali tout court, rappresentano una costante della letteratura scandinava e svedese in particolare – di cui anche il teatro ed il cinema si sono a vario titolo impadronite, già dagli inizi del Novecento – e basti citare a questo proposito i drammi di August Strindberg (15), il più delle volte imperniati sulla condizione della famiglia, per lui la più devastante delle istituzioni umane, nonché Scene da un matrimonio, cult movie degli Anni Settanta realizzato da Ingmar Bergmann (16), di certo non è estranea alla poetica del romanzo l’esistenza stessa, agitata e inquieta di Karin Boye, specie sotto il profilo sentimentale: nel luglio del 1929 aveva sposato Leif Bjoerk , anche lui militante di Clartè: nonostante un lungo e forte legame fra i due e malgrado i loro frequenti viaggi insieme – fra cui quello in Jugoslavia nel 1930 – il matrimonio naufraga nel giro di due anni-

Nel 1932, anche nel tentativo di chiarire a se stessa le ragioni della propria bisessualità, Karin Boye si reca a Berlino, per sottoporsi ad un trattamento di terapìa analitica, che tuttavia non riesce a condurre a termine a causa della mancanza di denaro: qui, in una Germania ormai alla vigilia dell’ascesa del potere nazista, la scrittrica si innamora di Margot Hanel, una giovane di estrazione borghese di origini ebraiche.

Il loro è un legame molto tormentato, anche a causa della differenza d’età – Margot ha infatti appena vent’anni – nonché sul piano culturale.

Specchio di questo rapporto contraddittorio e irrequieto è l’ampia produzione poetica della Boye – a cui da questo momento in poi comincia ad affiancare sempre più quella di impronta narrativa (forse per meglio oggettivare i suoi stati d’animo), cui possono fare riferimento questi versi, che in più parti riecheggiano l’ antica epica nordica.

      «Ho sognato spade stanotte.
      Ho sognato battaglia stanotte.
      Ho sognato che lottavo al tuo fianco
      Armata e forte.

      Lampegggiava forte dalla tua mano,
      e i Troll (17) cadevano ai tuoi piedi.
      La nostra schiera serrava le file e cantava
      Nella minaccia di tenebre silenziose.

      Ho sognato sangue stanotte.
      Ho sognato morte stanotte.
      Ho sognato che cadevo al tuo fianco
      Con ferite mortali, stanotte.

      Tu non notavi affatto che io cadevo.
      La tua bocca era seria.
      Con la mano ferma tenevi lo scudo
      E andavi diritta per la tua strada.

      Ho sognato fuoco stanotte.
      Ho sognato rose stanotte.
      Ho sognato che la mia morte era bella, e buona..
      Così ho sognato stanotte.(18)

Karin Boye nel 1940
Alle suggestioni dell’Ellade e della sua civiltà, di cui anche Simone Weil, pur essendo ebrea, sosteneva l’originalità e il primato, Karin Boye non può dunque fare a meno di fondere quelle da lei introiettate dallo studio della mitologia nordica a lei familiare: il dualismo tra le forze del Bene e del Male, che tanto l’avevano attratta in Federico Nietzsche, specie nel suo Also sprach Zarathustra, si possono ritrovare infatti anche in Asar och Alfer (19): ciclo tutto scandinavo. (20), da lei rivissuto in modo originale in poesia, quale simbolo del destino, ma soprattutto dell’atavica lotta fra Vita e Morte, tra il Bene e il Male, di cui assurge a simbolo Yggdrasil, l’Albero della Vita (gigantesco frassino, cui secondo la tradizione Odino (21) avrebbe fatto sacrificio a se stesso, standovi appeso nove giorni senza mangiare né bere) le cui radici erano tuttavia rose da serpi ad indicare la caducità del tutto: cosa che, forse con qualche forzatura biografica, fece dire a a Margit Abenius, che conobbe personalmente l’autrice, di scorgere nella figura di Odino, nel quale Male e Bene si intrecciano, una personificazione della stessa e della sua lacerata interiorità.

Non c’è da stupirsi dunque se, in un momento di grave depressione la scrittrice e poetessa svedese, allorchè le forze dell’Asse, cui la Seconda Guerra era dapprima favorevole, il 23 Aprile del 1941 invadono la Grecia, mitico simbolo dell’amore per la bellezza da lei sempre nutrito, mentre è ospite di Anita Nathorst, per lei più che una cara amica, una sorta di ‘madre spirituale’, ad Alingsas (22) si allontani dall’abitazione della donna, scomparendo e cercando la morte in mezzo alla natura: il suo corpo esanime verrà ritrovato alcuni giorni dopo semicoperto dall’erica. Come in un funereo gioco di scacchi, la Morte ha vinto.

      «Armata, diritta e corazzata
      avanzavo –
      ma l’armatura era di paura colata
      e di vergogna.

      Voglio gettar la armi,
      spada e scudo.
      Quella dura ostilità
      Era il mio gelo.

      Ho visto i semi secchi
      Germogliare infine.
      Ho visto il verde chiaro
      Svilupparsi.

      Potente è la gracile vita
      Più del ferro,
      spinta dal cuore della terra
      senza difesa.

      La primavera albeggia nelle regioni invernali,
      dove gelavo.
      Voglio accogliere le forze della vita
      disarmata. (23)

Biblioteca di Stato,
Göteborg
Le opere di Karin Boye si possono leggere in Samlade Skrifter (24). Riguardo agli interventi critici fondamentale è la ricostruzione, che ne ha fatto Margit Abenius in Drabbad av Renbet. En bok om Karin Boye. Liv och Diktning.(25)

In Italiano, sparsamente e non con l’attenzione e la cura che avrebbero meritato, sono state tradotte soltanto poche poesie,(26) fra le quali ci piace ricordare questa, che forse più di ogni altra riassume la sua personalità poliedrica e tormentata:

      Sei la mia consolazione più pura,
      sei il mio più fermo rifugio,
      tu sei il meglio che ho
      perché niente fa male come te.

      No, niente fa male come te.
      Bruci come ghiaccio e fuoco,
      tagli come acciaio la mia anima,
      tu sei il meglio che ho.(27)

Milano, 18 febbraio 2006
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NOTE

1. Karin Boye, da L'altro sguardo: antologia delle poetesse del Novecento, a cura di Guido Davico Bonino e Paola Mastrocola, Milano, Mondadori, 1996.
2. v. a questo proposito V. Consoli, Fausta Cialente e la cultura triestina, in «La Mosca di Milano», n.11, Il Confine, gennaio 2005, p.22.
3. Karin Boye, Kallocaina (traduzione dallo svedese di Barbara Alinei), Milano, Iperborea, 1993.
4. L'antica lingua nordica delle origini, in cui ci sono pervenute le versioni originarie dell'Edda antica - silloge di carmi tramandate da un codice adespoto del secolo XIII della Biblioteca Reale di Copenhaghen - e dell'Edda dell'islandese Snorri Sturluson, il più noto rappresentante della poesia cosiddetta scaldica, quest'ultima in prosa e risalenteanch'essa al XIII secolo.
5. Karin Boye, Poesie (v. Introduzione di Daniela Marcheschi, p.14), Il nuovo melograno, Ed. Le Lettere, Firenze, 1994.
6. Parola greca, che significa 'costrizione', 'necessità',
7: V. a questo proposito il saggio di Vittorio Barabino, Il linguaggio dell'UtopÏa - Analisi della neolingua in 1984 di George Orwell. http://www.intercom (http://www.intercom). Publinet.it. /NewSpeak.htm.
8. A.Huxley, Il mondo nuovo, pubblicato nel 1932.
9. Leader della dissidenza letteraria nei confronti di Stalin e padre della moderna DistopÏa.
10. Pseudonimo di Eric Arthur Blair (1903 - 1950), 1984, Milano, Mondadori, Aprile 1973, nella traduzione di Gabriele Baldini. Dal romanzo di Orwell, il regista e sceneggiatore americano Michael Radford ha girato, giusto nel 1984, l'omonimo film con musiche di Eurythmics e Dominic Muldonney.
11. Fondato dallo scrittore francese Henry Barbousse (1873 - 1935) ed estesosi ben presto in tutta Europa, ne fecero parte Georges Duhamel, Selma Lagerloef, Blasco Ibanez, Stephan Zweig, trae il suo nome dall'omonimo romanzo di Barbousse, Clartè (Chiarezza) da lui scritto nel 1919. Nel 1922 si afferma anche in Svezia, dove la Boye diviene redattrice dell'omonima r ivista.
12. v. nota n. 6.
13. K.Boye, Kallocaina, Iperborea, Milano, 1993, p.21.
v. op. cit. , p.179.
15 (1849/1912) .Il più importante scrittore svedes a cavallo del secolo.ed uno dei più grandi drammaturghi europei. La sua opera è vastissima e comprende tutti i generi letterari, dalla lirica all'autobiografia, dalla narrativa al teatro.Il continuo desiderio di andare oltre, nel tentativo tormentato di smascherare le certezze della società ,segnano a fondo l'opera di A.ugust Strindberg, conferendole un carattere innovativo ed anticipatore. Tra i suoi drammi, Il pellicano (1907), La via di Damasco, (1898-1901), Il Padre (1887).
16, Nato a Uppsala nel 1918, è uno dei maestri indiscussi della cinematografia internazionale. Figlio di un pastore protestante della Corte reale, debutta come drammaturgo negli Anni Quaranta, dando voce al clima angoscioso dell'epoca con una serie di opere nel solco della tradizione strindberghiana. Conquista la fama internazionale negli Anni Cinquanta come regista cinematografico. Suoi capolavori sono Il posto delle fragole, (1957), Il settimo sigillo, (1956), che gli valse il Premio Speciale della Giuria a Cannes, Alle soglie della vita (1963), Il silenzio (1963), Sussurri e grida (1973), Scene da un matrimonio (1975), SinfonÏa d'autunno (1978).
17. Giganti mostruosi della mitologia nordica.
18. V. nota 1
19. Asi ed Elfi. Con il nome di Asi vengono designati gli dei (buoni) di cui è a capo Odino. Gli elfi sono spiriti, forse in origine le anime dei morti, divinità intermedie tra cielo e terra.
20. v. Note a Karin Boye, Poesie (a cura di Daniela Marcheschi), Edtice Le Lettere, Il nuovo Melograno, Firenze, 1994, p.145.
21. La divinità nordica corrispondente allo Zeus dei Greci e al Giove dei Latini.
22. Località della Svezia del Sud nei pressi di Göteborg.
23. Voglio accogliere.Kallocaina a cura di Barbara Alinei, pag. 9, Iperborea Milano 1993
24. (sved.) - Raccolta di scritti a cura di Margit Abenius, Stoccolma, 1947/1950, voll. 1/11. I testi della giovinezza sono stati riuniti da Barbro Gustavsson, rispettivamente in Mansang e Det Stora Undret, Uddevalla, 1979 e 1981.
25. ( sved.) Un libro su Karin Boye. Vita e poesie, Stoccolma, 1951 (nuova edizione del 1966 con il titolo Karin Boye), ma anche il capitolo Karin Boye in Gunnar Brandel - Jan Stenqvist, Svensk Litteratur, 1870/1970, Stoccolma, 1974/1975, vol.2, pp.188/197 e vol.3, p.191.
26. Cfr. Augusto Guidi, Poeti svedesi (1888/1942), Roma, 1945, pp. 119/123. Giacomo Oreglia, Poesia svedese, con Prefazione di Salvatore Quasimodo, Milano, 1966, pp.193/197. Mario Gabrieli, Cinquanta anni di poesia nordica, traduzioni di Silvia De Cesaris, Epifani, Roma, 1967, pp. 183/189, riproposte più tardi da Ludovika Koch nel volume A.A.V.V. , Parnaso Europeo, Roma,1990, 2 voll.
27. v. nota n.1.
Titolo: Erba Del Vicino - Farina Del Sacco Altrui
Inserito da: ramingo - 23 Febbraio 2009, 17:15:37
Ombra del paradiso
Vicente Aleixandre

Triste come il ramo
che lascia cadere il suo frutto per nessuno.
Più triste, più.
Come quel vapore
che esala dalla terra dopo la morte della polpa.


 :(

 
Titolo: Erba Del Vicino - Farina Del Sacco Altrui
Inserito da: ramingo - 23 Febbraio 2009, 19:03:38
L'Uomo e il Mare
Charles  Baudelaire

Sempre il mare, uomo libero, amerai!
Perché il mare è il tuo specchio; tu contempli
nell'infinito svolgersi dell'onda
l'anima tua, e un abisso è il tuo spirito
non meno amaro. Godi nel tuffarti
in seno alla tua immagine; l'abbracci
con gli occhi e con le braccia, e a volte il cuore
si distrae dal suo suono al suon di questo
selvaggio ed indomabile lamento.
Discreti e tenebrosi ambedue siete:
uomo, nessuno ha mai sondato il fondo
dei tuoi abissi; nessuno ha conosciuto,
mare, le tue più intime ricchezze,
tanto gelosi siete d'ogni vostro
segreto. Ma da secoli infiniti
senza rimorso né pietà lottate
fra voi, talmente grande è il vostro amore
per la strage e la morte, o lottatori
eterni, o implacabili fratelli!
Titolo: Erba Del Vicino - Farina Del Sacco Altrui
Inserito da: ramingo - 09 Marzo 2009, 16:09:18
KAVAFIS COSTANTINO

Quanto piu' puoi

(traduzione di Filippo Maria Pontani)

Farla non puoi, la vita,
come vorresti? Almeno questo tenta
quanto piu' puoi: non la svilire troppo
nell'assiduo contatto della gente,
nell'assiduo gestire e nelle ciance.

Non la svilire a furia di recarla
cosi' sovente in giro, e con l'esporla
alla dissennatezza quotidiana
di commerci e rapporti,
sin che divenga una straniera uggiosa.




* Piu' che puoi
(traduzione di Nicola Crocetti)

Se non puoi farla come vuoi, la vita,
sforzati almeno piu' che puoi
di non prostituirla
nei contatti eccessivi con la gente,
con i gesti eccessivi e le parole.

Non la prostituire col portarla
troppo sovente in giro, con l'esporla
ai commerci e alle pratiche
della dissennatezza quotidiana,
finche' diventi estranea ed importuna.


* Per quanto sta in te
(traduzione di Margherita Dalmati e Nelo Risi)

E se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo
per quanto sta in te: non sciuparla
nel troppo commercio con la gente
con troppe parole e in un viavai frenetico.

Non sciuparla portandola in giro
in balia del quotidiano
gioco balordo degli incontri
e degli inviti,
fino a farne una stucchevole estranea.
Titolo: Erba Del Vicino - Farina Del Sacco Altrui
Inserito da: ramingo - 09 Marzo 2009, 16:34:23
COME SE AVESSI SCELTO
DIMULA' KIKI

Oggi è venerdì vado al mercato
a fare un giro per gli orti decapitati
a sentire le fraganze dell'origano
schiavo in mazzetti.

Vado verso mezzogioro quando cala il prezzo delle pretese
trovi facilmente il verde
fagiolini zucchini malva e gigli.
Sento gli alberi che con coraggio si esprimono
ella lingua mozza dei frutti
retori a mucchi le arace e le mele
comincia a predere colorito un pò di convalescenza
sulle pallide guance
di un mutismo interno.

Compro raramente. Perchè ti dicono SCEGLI.
Ma questo è u vanaggio o un problema? Scegli e poi
come portare il peso insostenibile
della tua scelta?
Dire invece E' ANDATA COSI' che sollivo. Almeno all'inizio.
Perchè poi sei schiacciato dalle cosegueze.
Insostenibili anch' esse.
I fondo è come se tu avessi scelto.

Tutt'al più compro un pò di terra. Non per i fiori.
Per familiarizzarmi.
Là non c'è scelta. Là vai ad occhi chiusi.


 
Titolo: Re:Erba Del Vicino - Farina Del Sacco Altrui
Inserito da: ramingo - 20 Settembre 2010, 22:45:04
ALLA SUA AMANTE RITROSA - Andrew Marvell
Avessimo abbastanza Mondo e Tempo,
non sarebbe un delitto, Signora, la vostra ritrosia.[...]
Penseremmo seduti a quale strada prendere,
a come trascorrere il nostro lungo giorno d’Amore.
Voi sulla riva del Gange trovereste rubini: io presso
l’onda del fiume Humber mi lamenterei.
Vi amerei fino a dieci anni prima del diluvio,
e voi, se vi piacesse, potreste rifiutarmi
fino alla conversione degli Ebrei.
Il mio amore vegetale avrebbe il tempo
di crescere più grande di tutti gli imperi
e anche più lento.
Cent’anni se ne andrebbero a lodare
i vostri occhi e a contemplare il vostro volto.
Duecento per adorare uno dei vostri seni
e trentamila almeno per adorare insieme tutto il resto.
Un Evo intero per ciascuna parte, e l’ultimo
alfine mostrerebbe il vostro cuore.
Perché senza alcun dubbio, Signora,
questo cerimoniale voi lo meritate, e io non vorrei
amarvi a minor prezzo.
Ma alle mie spalle odo continuamente
l’alato carro del tempo che si avvicina veloce:
e laggiù da ogni parte, davanti a noi,
si stendono deserti di vasta eternità.
La vostra bellezza non sarà più ritrovata;
e non si potrà più udire nel vostro sepolcro di marmo
echeggiare il mio canto: solo i vermi tenteranno
quella verginità a lungo preservata:
e il vostro strano onore sarà mutato in cenere;
tutta la mia lussuria trasformata in polvere.
Certo la tomba è un luogo intimo e bello
ma dubito che qualcuno vi voglia fare all’amore.
Ora, dunque, mentre il colore della giovinezza
si posa sulla vostra pelle come rugiada del mattino,
ora mentre l’anima consenziente
brucia con fiamme importune,
ora finché possiamo godiamoci il piacere;
subito come uccelli da preda amorosi
divoriamo il nostro tempo,
piuttosto che languire nelle sue lente mascelle.
Tutta la nostra energia, tutta la nostra dolcezza
cerchiamo di addensarla in una sola sfera:
gettiamo i nostri piaceri con rude violenza
oltre i cancelli di ferro della vita.
Così sebbene non si possa obbligare il nostro sole
a fermarsi, possiamo tuttavia obbligarlo a correre.

Titolo: Re:Erba Del Vicino - Farina Del Sacco Altrui
Inserito da: ramingo - 20 Settembre 2010, 22:48:05
desiderata

Procedi con calma in mezzo al fragore ed alla fretta.
Ricorda sempre quale pace può esserci nel silenzio.

Per quanto ti è possibile, senza arrenderti, sii sempre in buoni rapporti con il tuo prossimo.
Manifesta la tua verità con tranquillità e chiarezza; e presta ascolto agli altri, anche agli
sciocchi ed agli ignoranti : perché anche essi hanno una loro storia.

Evita le persone rumorose ed aggressive: esse rappresentano delle irritazioni per lo spirito. Non
ti paragonare ad altri perché potresti diventare vanitoso ed amaro, perché esisteranno persone
superiori e inferiori a te stesso.
Goditi sia i successi che i progetti.

Mantieniti sempre interessato alla tua carriera, per quanto umile essa sia: essa rappresenta una
vera e propria ricchezza nelle mutevoli fortune del tempo. Sii sempre
Cauto nei tuoi affari poiché il mondo è pieno di inganni. Ma non lasciare mai che ciò ti renda
cieco verso quello che è la virtù: molta gente lotta per degli alti ideali; e dovunque la vita è
costellata di atti d'eroismo.

Sii sempre te stesso. In particolar modo non fingere affetto. E non essere neppure cinico nei
confronti dell'amore, in quanto, di fronte a tutte le aridità e le disillusioni, esso è eterno
come l'erba.

Prendi benevolmente i consigli che ti derivano dall'esperienza degli anni e abbandona garbatamente
le cose della giovinezza. Alimenta continuamente la forza dello spirito per proteggerti dalle
avversità improvvise. Ma non angustiarti con delle chimere.
Molte paure nascono dalla stanchezza e dalla solitudine. Al di là di una sana disciplina, sii
sempre garbato con te stesso.

Tu sei un figlio dell'universo, non meno di quanto lo siano gli alberi e le stelle. Tu hai diritto
di essere qui. E, ti sia chiaro o no, non c'è dubbio che l'universo prima o poi ti si aprirà come
dovuto.

Perciò sii in pace con Dio, qualsiasi cosa tu creda Egli sia, e quali che siano i tuoi compiti e
le tue aspirazioni, nella rumorosa confusione della vita mantieniti in pace con la tua anima.

Con tutte le sue falsità, le sue ingratitudini ed i suoi sogno infranti, questo rimane pur sempre
un mondo meraviglioso. Sii prudente e fa di tutto per essere felice.


-------------------------------
Questo testo bellissimo viene quasi sempre presentato come “Manoscritto del 1692 trovato a Baltimora nell’antica chiesa di San Paolo”.
Invece nel 1959 il reverendo Frederick Kates rettore della chiesa di St. Paul, a Baltimore, Maryland, incluse questo pensiero in una raccolta di materiale devozionale.
In cima alla raccolta, c’era l’annotazione “Old St. Paul’s Church, Baltimore, A.C. 1692″, che è l’anno di fondazione della chiesa… da qui l’equivoco.
In realtà, l’autore di questi versi è Max Ehrmann, un poeta di Terre Haute, Indiana, vissuto dal 1872 al 1945, e scrisse Desiderata intorno al 1927.

Titolo: Re:Erba Del Vicino - Farina Del Sacco Altrui
Inserito da: ramingo - 22 Settembre 2010, 17:42:00
 :o

Cthulhu è una creatura cosmica creata dalla fantasia dello scrittore statunitense Howard Phillips Lovecraft, il cui ciclo letterario più importante è proprio il Ciclo di Cthulhu, anche noto come Miti di Cthulhu.
Cthulhu appare per la prima volta nel racconto intitolato Il Richiamo di Cthulhu (1928).
Cthulhu fa parte della complessa mitologia inventata da Lovecraft e da lui attribuita ad un fittizio manoscritto noto come "Necronomicon" redatto dall'"arabo pazzo" Abdul Alhazred. Cthulhu è il principale, nonché sacerdote, dei "Grandi Antichi", abominevoli creature aliene che si insediarono sulla Terra quando ancora la vita terrestre era agli inizi. Egli infatti giunse con la sua progenie stellare (la cosiddetta "prole stellare di Cthulhu") sulla Terra e fondò la leggendaria città di R'lyeh, nella quale fu imprigionato quando le stelle furono allineate correttamente (the stars come right).
Alla vista, la sua manifestazione è di un'enorme sacca molliccia, viscida e flaccida, simile alla testa di un polpo ma gigante come una montagna. La pelle è elastica e traspare da essa l'interno osceno del suo corpo. Il colore interno è una sintesi di tutti i colori cadaverici mentre l'odore che emana è un concentrato dei più pestilenziali e putridi miasmi marini. La testa è contornata da tentacoli. I tentacoli finiscono con una specie di bocca nel cui interno si trovano tre denti acuminati. Tra i tentacoli si spalancano occhi fissi che osservano il tutto e il niente.
Nel mito, Cthulhu contatta determinati umani nel sonno, da cui l'infausta nomea del suo richiamo. Da eoni dorme sul fondo del mare, nell'isola di R'lyeh, dove attende sognando.
Gli esseri umani, ma poi si scoprirà anche altre creature preumane, l'hanno divinizzato, associandolo agli immondi Dèi del pantheon lovecraftiano. Il suo culto copre tutta la Terra ma sembra partire dall'Arabia per raggiungere la Louisiana, la Groenlandia, la Nuova Zelanda. Si narra che gli ierofanti del culto vivano sperduti tra certe montagne della Cina, dove tramano ai danni dell'umanità.
Il culto è famigerato per l'uso di ritornelli orrendi e apparentemente insensati, come Ph'nglui mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn, spesso abbreviato in Cthulhu fthagn, che dovrebbe significare "Cthulhu aspetta" o "Cthulhu sogna".
Si ritiene che Cthulhu sia una personificazione del principio noto in fisica come "Morte termica" dell'universo.
Lovecraft non creò mai un vero e proprio Mito di Cthulhu attorno alla sua narrazione, ma costruì una gran quantità di racconti sostenuti da questa comune teoria. Il mito si diffuse inizialmente anche grazie all'apporto di altri scrittori suoi contemporanei che riutilizzarono alcune delle invenzioni di Lovecraft in proprie opere. Questo gioco di reciproche citazioni concorse infatti a creare una sorta di "credibilità" per tutto l'impianto.

fonte:http://it.wikipedia.org/wiki/Cthulhu (http://it.wikipedia.org/wiki/Cthulhu)

ebbene perché inserisco questo post?
perché lovecraft è nelle mie letture e perché ho visto il film cloverfield:
molte furono nel 2008 le speculazioni sul film e tra le ipotesi, la più gettonata era quella che il mostro fosse Cthulhu di Howard Phillips Lovecraft :P


(http://www.francescobrandoli.eu/cthulhustatue.jpg)

(http://1.bp.blogspot.com/_vD7I6qHKQ3c/TD9j-a6qyvI/AAAAAAAAAzY/9nfMe9B3yYc/s1600/ARKHAM_1.jpg)

Titolo: Re:Erba Del Vicino - Farina Del Sacco Altrui
Inserito da: ramingo - 21 Agosto 2011, 18:00:02
Come vi piace (As You Like It), a volte tradotto Come vi piaccia, è una commedia pastorale in cinque atti di Shakespeare, scritta, in versi e in prosa, tra il 1599 e i primi mesi del 1600.

ATTO QUARTO - SCENA PRIMA
orlando sa che rosalinda è nella foresta e scrive messaggi d'amore sugli alberi. rosalinda legge i messaggi e il caso la porta faccia a faccia con orlando. travestita da uomo (ganimede), rosalinda coglie l'occasione per mettere alla prova l'amore di orlando,e propone a questo di fare finta di essere rosalinda e corteggiarla. arrivano al punto di simulare il matrimonio.

Ma dico io, Orlando, dove siete stato tutto questo tempo? Voi innamorato! Fatemi un altro di questi scherzi, e starete alla larga da me.

ORLANDO
Mia bella Rosalinda, son qui con neanche un'ora di ritardo.

ROSALINDA
Mancar d'un'ora di ritardo a una promessa d'amore! Ma chi spaccasse un minuto in mille parti, e poi mancasse d'un bruscolo della millesima parte del minuto in un affare di cuore, beh di lui si può dire che forse Cupido gli ha dato un colpetto alla spalla, ma garantisco che il cuore gli è rimasto illeso.

ORLANDO
Perdonami cara Rosalinda.

ROSALINDA
Oh, se siete così attardato non venitemi più sotto gli occhi. Tanto varrebbe farsi far la corte da una lumaca.

ORLANDO
Una lumaca?

ROSALINDA
Sì una lumaca. Che almeno lei, se va lenta, si porta in testa la casa: che è meglio di quanto voi, mi pare, potete offrire a una donna. Inoltre la lumaca porta con sé il suo destino.

ORLANDO
Sarebbe a dire?

ROSALINDA
Beh, le corna, che tipi come voi possono aspettarsi soltanto come regalo dalla moglie. La lumaca invece viene già armata del proprio destino, e così sgambetta le maldicenze.

ORLANDO
La virtù non fa corna, e la mia Rosalinda è virtuosa.

ROSALINDA
E la vostra Rosalinda, eccola qua.

CELIA
Lui ti chiama così perché gli va, ma la sua Rosalinda è più bella di te.

ROSALINDA
Su fatemi la corte, fatemi la corte: oggi mi sento festosa e propensa a cedere. Cosa mi direste, ora, se fossi davvero davvero la vostra Rosalinda?

ORLANDO
Ti bacerei prima di parlare.

ROSALINDA
Ah no, è meglio parlare prima, e quando sareste a corto di argomenti potreste approfittarne per baciare. I grandi oratori quando sono a secco, sputano, e per gli amanti che abbiano - Dio non voglia! - qualche défaillance, la mossa più pulita è baciare.

ORLANDO
E se il bacio è negato?

ROSALINDA
Allora ti obbliga a supplicare, e l'argomento è bell'e trovato.

ORLANDO
Ma chi può esserne spoglio, quando si trova con l'amata?

ROSALINDA
Voi per esempio, perbacco! Se fossi la vostra amante. O dovrei pensare che in me l'onestà la vince sulla capacità.

ORLANDO
Mi vuoi proprio spogliato?

ROSALINDA
Non dei vestiti ma degli argomenti. Non sono la vostra virtuosa Rosalinda?

ORLANDO
Dire che lo sei mi dà un po' di gioia, perché è una scusa per parlare di lei.

ROSALINDA
Bene, e allora, nei suoi panni, vi dico che non vi voglio.

ORLANDO
E allora nei miei panni io muoio.

ROSALINDA
No, per carità, morite per procura. Questo povero mondo è vecchio di quasi seimila anni, e in tutto questo tempo nessuno è mai morto nei suoi panni, voglio dire, per causa d'amore. Troilo s'ebbe il cervello spappolato da una clava greca, e dire che aveva fatto di tutto per morire prima, e lui è un modello per gli amanti. Leandro, lui sarebbe vissuto felice e contento chissà quanti anni, anche se Ero si fosse fatta monaca, non fosse stato per colpa d'una calda notte di mezzestate: perché, poverino, andò solo a farsi un bagno nell'Ellesponto, e preso da un crampo annegò, e gli sciocchi cronisti dell'epoca accollarono il fatto a Ero di Sesto. Tutte menzogne! Gli uomini muoiono, di tanto in tanto, e i vermi se li mangiano, ma non muoiono mai per amore.

ORLANDO
Non mi farebbe piacere che la mia Rosalinda, quella vera, la pensasse così, perché lo giuro, mi basterebbe un cipiglio a farmi crepare.

ROSALINDA
Giuro su questa mano che non ammazzerebbe una mosca. Ma vieni qui, voglio fare la tua Rosalinda in vena di concessioni. Chiedimi ciò che vuoi e io t'accontento.

ORLANDO
Allora amami Rosalinda.

ROSALINDA
Ci puoi contare, ti amerò il venerdì, il sabato e sempre.

ORLANDO
E mi vorrai?

ROSALINDA
Ma certo, e altri venti come te.

ORLANDO
Ma cosa dici!

ROSALINDA
Perché, non sei buono?

ORLANDO
Lo spero bene.

ROSALINDA
E allora, di cose buone, se ne può volerne mai troppe? Vieni qua, sorella, devi fare il prete e sposarci. Dammi la mano, Orlando. Cosa dici, sorella?

ORLANDO
Ti prego, sposaci.

CELIA
Ma non so le parole.

ROSALINDA
Comincia così: "Vuoi tu, Orlando...".

CELIA
Proviamo. Vuoi tu Orlando prendere in moglie la qui presente Rosalinda?

ORLANDO
Sì.

ROSALINDA
Sì, ma quando?

ORLANDO
Subito, adesso, più presto che lei può!

ROSALINDA
Allora devi dire: "Rosalinda ti prendo in moglie".

ORLANDO
Rosalinda ti prendo in moglie.

ROSALINDA
Ti potrei prendere in parola, ma lasciamo stare, ti prendo per marito, Orlando. Ed ecco qui una ragazza che si sbriga prima del prete, e certo mente di donna precede ogni fatto.

ORLANDO
Così fan tutti i pensieri, che ci hanno le ali.

ROSALINDA
Ma adesso dimmi per quanto tempo la tieni, dopo ch'è stata tua.

ORLANDO
Per sempre e un giorno.

ROSALINDA
Dì pure un giorno senza il sempre. No, no, Orlando, gli uomini sono aprile da innamorati e dicembre da sposati. Le ragazze son maggio da ragazze, ma il cielo cambia da maritate. Io sarò più gelosa di te che un piccione di Barberia della sua piccioncina, strillerò più d'un pappagallo quando viene il temporale, sarò più vanitosa d'una bertuccia, più pazza-capricciosa d'una scimmietta. Piangerò per niente come Diana sulla fonte, e lo farò quando tu sei in vena d'allegria. E quando avrai voglia di dormire riderò come una iena.

ORLANDO
Farà così pure la mia Rosalinda?

ROSALINDA
Puoi contarci, farà come me.

ORLANDO
Oh ma lei è saggia.

ROSALINDA
Difatti, altrimenti non avrebbe lo spirito per farlo. Più saggezza più bizze. Chiudi la porta su ingegno di donna, e quello esce per la finestra. Chiudi la finestra, e quello scappa per il buco della serratura. Tappa questo, e vola col fumo per la cappa del camino.

ORLANDO
Allora uno che avesse una moglie di tanto spirito potrebbe dire: "O spirito, dove spiri?".

ROSALINDA
Beh, meglio tener da parte la domanda per quando vedrai lo spirito di tua moglie infilarsi nel letto del vicino.

ORLANDO
E con quale presenza di spirito si scuserebbe lo spirito?

ROSALINDA
O Madonna, direbbe ch'era lì per cercarti. Difficile assai trovarla senza risposte pronte, a meno che non sposi una senza lingua. Eh, la donna che d'una sua colpa non sa fare un manico di scopa da dare in testa al marito, non dia mai il suo latte al bambino, crescerebbe un deficiente.

ORLANDO
Rosalinda, ti lascio per un paio d'ore.

ROSALINDA
Amore mio, e come farò per due ore senza di te?

ORLANDO
Debbo andare a pranzo dal duca ma per le due sarò di ritorno.

ROSALINDA
Ma sì, va pure, va pure. Lo sapevo che razza di marito ti dimostravi. Le mie amiche l'avevano detto e io me l'aspettavo. Mi ha messo nel sacco quella linguaccia adulatrice. Ed eccone un'altra che è stata fregata, e allora vieni, morte! Hai detto alle due?

ORLANDO
Sicuro, dolcezza.

ROSALINDA
Per l'anima mia, e non scherzo affatto, e per Iddio che mi perdoni, e per tutti quei moccolini che non fan male a nessuno, se manchi d'un solo soffio alla tua promessa o se arrivi con un minuto di ritardo ti giudicherò il più miserabile traditore, e l'innamorato più falso, e il più indegno di quella che chiami Rosalinda, il più infedele che si possa scegliere dalla massa d'infedeli: evita dunque l'addebito e mantieni la promessa.

ORLANDO
Promessa sacrosanta, come se fossi la mia Rosalinda. Ora ti saluto.

ROSALINDA
Beh, il Tempo è il giudice antico che giudica tutte queste infrazioni. Lasciamo tutto al Tempo. Ti saluto.