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Autore Topic: Favole Romene  (Letto 9259 volte)

ramingo

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Favole Romene
« il: 01 Marzo 2009, 00:42:33 »

IL VINCITORE DEI GIGANTI1
di Petre Ispirescu
C’era una volta, e non ci fu mai...
C’era un imperatore chiamato l’Imperatore Rosso. Era molto amareggiato per il fatto
che, in quegli anni, certi giganti avevano rubato il Sole e la Luna dal cielo.
Inviò dunque dei messi in tutti i villaggi e le città con questo bando: chiunque fosse
riuscito a riprendere ai giganti il Sole e la Luna, avrebbe avuto sua figlia in sposa e, in
più, la metà del suo impero. Chi però fosse tornato senza riuscire nell’impresa, avrebbe
avuto il capo mozzo. Molti giovani si erano vantati con troppa leggerezza di riuscire; ma,
una volta messi alla prova, non avevano fatto altro che vagare in lungo e in largo, in su e
in giù, senza saper bene da che parte incominciare e dove finire. “Non tutte le api fanno il
miele”, dice il proverbio: e così tutti quei baldi giovanotti erano finiti male, perché
l’imperatore aveva mantenuto la sua parola.
A quell’epoca, viveva un eroe chiamato Greuceano. Quando anche lui venne a sapere
del bando, pensa e ripensa, prese il coraggio a quattro mani, e confidando nell’aiuto del
cielo e nel proprio valore, decise di presentarsi anche lui al sovrano per offrirgli i suoi
servigi.
Si mise dunque in cammino, e strada facendo incontrò le guardie imperiali con due
prigionieri:
 erano due sudditi che erano fuggiti in una battaglia contro delle belve feroci,
e l’imperatore doveva metterli a morte. I due poverini erano pieni di angoscia, ma
Greuceano li consolò con parole tanto amorevoli che quelli si rincuorarono un po’: era
anche buono ed esperto nel parlare, il nostro Greuceano.
Questo incontro gli parve un segno di quel che doveva fare. Si disse infatti: - Tenterò
la fortuna. Se riuscirò a convincere l’imperatore a perdonare questi uomini, allora oserò
anche affrontare i giganti: se no, pazienza! Tornerò là di dove son venuto. Vada come
vada, provare non nuoce -.
E così, sperando nel meglio, cammina cammina, Greuceano arrivò a corte. Si presentò
all’imperatore e parlò tanto e con tanta arte, che anche l’imperatore si convinse che
sarebbe stato ingiusto uccidere quei due uomini: se li avesse graziati, avrebbe avuto due
buoni sudditi in più, e inoltre avrebbe goduto fama nel mondo di sovrano clemente verso
il popolo.
Quando gli uomini seppero che Greuceano aveva convinto l’imperatore a graziarli, la
loro gioia fu immensa: ringraziarono l’eroe di tutto cuore, e gli promisero che avrebbero
pregato per tutta la vita perché lui passasse di vittoria in vittoria.
Questo parve dunque di buon augurio a Greuceano: perciò, recandosi per la seconda
volta dall’imperatore, gli disse cortesemente:
- Grande signore, che tu possa vivere per molti e molti anni sul trono luminoso di
questo impero. Molti giovani si erano impegnati con te a riportarti il Sole e la Luna rubati
dai giganti, e so che li hai condannati a morte perché hanno fallito nell’impresa. Anch’io,
signore, ora vorrei andare a cercare i ladroni, se tu mi dai l’incarico di tentar la sorte: e
spero di riuscire a punirli della loro insolenza. Però tu sii clemente, ed aiutami.
- Mio caro Greuceano, - rispose l’imperatore - io non posso cambiare neppure una
parola, neppure una virgola delle mie decisioni. E questo perché voglio essere giusto: i
miei ordine devono essere uguali per tutti in tutto il mio impero: io non conosco
parzialità.
Greuceano vide che l’imperatore era fermo nelle sue decisioni, e che le sue parole
erano giuste. Gli disse allora, arditamente:
- E sia, grande imperatore: anche se sapessi di dover morire, non rinuncerei
all’impresa.
Si preparò dunque a questa prova, e pochi giorni dopo partì, pensando di non aver
trascurato nulla per riuscire onorevolmente.
Greuceano aveva un fratello: lo prese con sè, e insieme se ne andarono per una lunga
via, fino a quando giunsero presso il Fabbro del Mondo. Questi una volta aveva fatto un
patto di sangue con Greuceano, e per questo i due si chiamavano “fratelli di sangue”. Il
Fabbro era il più abile del mondo, ed era esperto anche di magia. Presso di lui, Greuceano
si riposò: poi, chiusi per tre giorni in una stanza segreta, l’eroe e il Fabbro tennero
consiglio.
Dopo due settimane, avendo deciso per filo e per segno quel che dovevo fare,
Greuceano ripartì con suo fratello.
Subito dopo la sua partenza, il Fabbro si mise all’opera: prima fece un’immagine di
Greuceano, tutta di ferro; poi accese un fuoco ardente nella sua fucina e tenne
continuamente l’immagine accanto al fuoco, giorno e notte. Intanto Greuceano e suo
fratello andavano e andavano. Finalmente, giunsero a un crocevia; qui si fermarono,
sedettero sull’erba lungo la strada e si rifocillarono con le provviste che avevano con sé.
Infine, dopo essersi abbracciati e aver pianto come due bambini, si separarono. Prima,
però, divisero in due un fazzoletto, e si misero d’accordo: - Se le due metà si
strapperanno lungo i bordi, potremo sperare di ritrovarci; ma se si strapperanno al centro,
vorrà dire che uno di noi due è morto -.
Inoltre, conficcarono un coltello in terra, e dissero: - Quello di noi che tornerà qui per
primo, e troverà il coltello arrugginito, non aspetti più l’altro, perché ciò significherà che
l’altro è morto.
Poi, Greuceano prese a destra e suo fratello a sinistra.
Il fratello di Greuceano, dopo aver camminato a lungo senza trovare niente e nessuno,
tornò al luogo dove si erano separati, e, trovando il coltello lucido, si mise ad aspettare
con gioia di veder tornare il Sole e la Luna al loro posto nel cielo.
Greuceano invece camminò, camminò fino ad un sentiero che conduceva proprio alle
case dei giganti. Giunto là, Greuceano si batté per tre volte sul capo con la mano e si
trasformò in colomba: era una magia che gli aveva insegnato il Fabbro del Mondo. La
colomba Greuceano si alzò in volo, e si posò sopra un albero che stava proprio di fronte
alle case.
Allora, la figlia maggiore di un gigante uscì, e vedendo quella colomba bellissima
sopra il ramo, chiamò sua madre e la sorella minore perché venissero ad ammirarla anche
loro.
La minore disse: - Mammina e sorellina, non mi sembra che questa delicata colomba
tubi per noi: i suoi occhi non sembrano quelli d’un uccello, ma quelli di Greuceano,
l’eroe dorato. Fino ad oggi abbiamo vinto noi giganti; d’ora in poi, chi potrà salvare noi e
i nostri?
I giganti, a quanto pare, sapevano del valore di Greuceano.
Le gigantesse rientrarono in casa, e tennero consiglio fra loro tre.
Greuceano si diede subito altri tre colpi sul capo con la zampetta, diventò una mosca,
ed entrò nella loro camera. Qui si nascose nella crepa di una delle travi ed ascoltò i loro
pareri. Dopo aver saputo tutto quel che gli occorreva, uscì e andò in direzione della
Foresta Verde: lì si nascose, sotto un ponte. Dopo quello che aveva sentito di nascosto,
sapeva che i giganti erano andati a caccia nella Foresta Verde e dovevano tornare uno a
sera, un altro a mezzanotte e il terzo, il grande capo, verso l’alba.
Mentre Greuceano aspettava, ecco che si vede arrivare il più piccolo dei giganti a
cavallo. Ma, giunto al ponte, il cavallo nitrì, e balzò indietro di sette passi. Allora il
gigante si adirò e disse:
- Che ti possa mangiare il lupo! A questo mondo, io non ho paura di nessuno, tranne di
Greuceano il dorato; ma abbatterò anche lui con un colpo.
Greuceano, quando udì queste parole, uscì da sotto il ponte a gridò:
- Vieni, gigante coraggioso: vogliamo batterci con le spade o lottare a mani nude?
- Lottiamo, è meglio.
Si avvicinarono l’uno all’altro, e iniziarono il combattimento.
Il gigante afferrò Greuceano e lo conficcò nel terreno fino alle ginocchia. Ma
Greuceano afferrò il gigante, lo conficcò nel terreno fino al collo e gli mozzò via la testa.
Poi, dopo avere scagliato dal ponte il gigante e il suo cavallo, si riposò.
Ed ecco che, al calar della notte, arrivò anche il fratello maggiore del gigante e anche
il suo cavallo balzò indietro, di diciassette passi. Il gigante parlò come aveva parlato suo
fratello, e Greuceano gli rispose allo stesso modo. Poi, uscito di sotto al ponte, lottò anche
con lui.
Ed ecco che il gigante afferrò Greuceano e lo conficco nel terreno fino alla cintura. Ma
Greuceano, afferrando anche lui il gigante, lo conficcò nel terreno fino al collo e gli
mozzò via la testa. Poi, dopo aver gettato dal ponte il gigante e il suo cavallo, si riposò.
Ma verso l’alba, chi venne? Venne il capo dei giganti, smisurato, pieno d’ira come un
arcidiavolo: quando arrivò al ponte, il suo cavallo fece settantasette passi indietro. Il
gigante s’irritò moltissimo di questo fatto, e ruggì:
- Che ti possano mangiare i lupi! A questo mondo, io non ho paura di nessuno, tranne
di Greuceano il dorato; ma saprei stendere a terra anche lui, colpendolo agli occhi con
una mia freccia.
Allora, uscendo da sotto il ponte, Greuceano gli disse:
- Vieni, vieni, gigante coraggioso: vogliamo batterci con le spade, o colpirci con le
lance, o lottare a mani nude?
Il gigante si avvicinò, e iniziò il duello: combattendo con le spade fino a romperle, con
le lance fino a spezzarle, e infine si misero a lottare, con tanta forza che la terra tremava.
Il gigante riuscì ad afferrare saldamente Greuceano, ma questo, che aveva capito la sua
mossa, gonfiò i muscoli e contrasse le vene e non gli successe niente; poi fu Greuceano
che strinse il gigante proprio quando non se l’aspettava, e gli stritolò le ossa.
Non si era mai vista una lotta come quella. Lottarono e lottarono fino a mezzogiorno,
sudando sette camicie. In quel momento, passò su di loro un corvo che volava in tondo
nel cielo, attirato da quella lotta.
Quando lo vide, il gigante disse: - Corvo, corvo nero, portami un goccio d’acqua ed io
ti darò da mangiare un gigante forte con tutto il suo cavallo.
E Greuceano disse: - Corvo, corvo, portami un goccio d’acqua fresca ed io ti darò da
mangiare tre gigante con tutti i loro cavalli.
Sentendo queste parole, il corvo portò un goccio d’acqua fresca a Greuceano, e lui si
dissetò, ché ne aveva un gran bisogno.
Così riprese forza, afferrò il gigante, lo sbatacchio di qua e di là e lo conficcò nel
terreno fino alla gola; e lo tenne così, stando con un piede sopra il suo capo. Poi disse:
- Gigante infame, dimmi dove hai nascosto il sole e la Luna, perché ormai non mi puoi
più sfuggire dalle mani.
Il gigante esitava, borbottava parole incomprensibili; ma Greuceano disse ancora:
- Che tu me lo dica o no, li troverò in ogni modo, e per giunta ti toglierò la testa.
Allora il gigante, sperando di aver almeno salva la vita, disse:
- Nella Foresta Verde c’è una torre. Il Sole e la Luna sono rinchiusi là dentro. La
chiave è il mignolo della mia mano destra.
Sentito questo, Greuceano gli tagliò la testa e si prese via il mignolo; poi ricompensò il
corvo come aveva promesso, e se ne andò alla torre della Foresta Verde. Qui aprì la porta
col dito del gigante e trovò il Sole e la Luna. Prese nella destra il Sole e nella sinistra la
Luna, li lanciò nel cielo e si sentì raggiante di gioia.
Rivedendo il Sole e la Luna nel cielo, tutti si rallegrano, e ringraziano l’Onnipotente di
aver dato a Greuceano tanta forza da farlo vincere quegli abominevoli nemici degli
uomini.
Greuceano, soddisfatto di aver portato l’impresa a buon fine, si mise sulla via del
ritorno. Trovò suo fratello nel luogo convenuto, e lo abbracciò. Poi i due giovani
comprarono due cavalli che andavano come frecce, e galopparono verso il palazzo
dell’imperatore.
Per la strada, trovarono un albero carico di pere d’oro. Il fratello di Greuceano disse
che sarebbe stato piacevole riposarsi un po’ alla sua ombra, far riprendere fiato ai cavalli
e raccogliere anche qualche pera per placare la fame.
Greuceano però, che aveva ascoltato tutti i piani delle gigantesse, accettò di riposare,
ma non lasciò che suo fratello cogliesse le pere: le avrebbe raccolte lui stesso. Prese la
spada, e colpì il pero alla radice. Ed ecco, com’è come non è, ne uscirono sangue e
veleno, mentre una voce diceva: - Lo so che farai di me come hai fatto di mio marito.
E di quel pero non rimase nulla, se non polvere e cenere, e il fratello do Greuceano
rimase sbigottito, non sapendo il perché di quel che era successo.
Dopo aver camminato e camminato, arrivarono in un giardino bellissimo, pieno di
fiori e farfalle e acqua limpida e fresca.
Il fratello di Greuceano disse: - Fermiamoci qui un momento, fratello, e lasciamo
riposare i cavalli. E intanto beviamo un po’ di quest’acqua e cogliamo di questi fiori.
Così faremo, fratello, - rispose Greuceano - se questo giardino è stato lavorato da mani
umane e se la sorgente non è velenosa.
Poi, sguainando la spada, colpì i fiori più belli e li falciò a terra; e forò anche il fondo e
i lati della fontana. Allora invece di acqua incominciò a sgorgare sangue nero, e dal
gambo dei fiori uscì altro sangue che riempì l’aria di un odore ripugnante. Polvere e
cenere rimasero anche della figlia maggiore del gigante, che si era fatta giardino e
sorgente per avvelenare Greuceano.
Sfuggiti anche a questo pericolo, i due fratelli montarono a cavallo e ripartirono, veloci
come il vento. Ma ecco che quell’arpia della madre delle gigantesse si mise a correre
dietro a loro, furiosa, per inghiottire Greuceano in un boccone; ed aveva di che essere
pazza di rabbia e dolore: non aveva più né marito, né figlie, né generi.
Greuceano, sentendo che erano rincorsi dalla vecchia gigantessa, disse al fratello:
- Guardati alle spalle, fratello, e dimmi che cosa vedi.
Vedo - rispose il fratello - una nuvola che viene verso di noi come un turbine.
Allora spronarono i cavalli, e questi corsero agili come il vento e rapidi come il
pensiero; dopo un po’, Greuceano disse a suo fratello di guardare nuovamente indietro.
Egli rispose che la nuvola si avvicinava come una vampata di fuoco: allora, sferzando al
massimo i cavalli, i due giunsero dal Fabbro del Mondo. Scesi da cavallo, si chiusero
nella torre. Dietro di loro arrivò la gigantessa, e se li avesse presi li avrebbe distrutti, non
lasciando di loro neppure un ossicino. Ma ora non poteva più prenderli.
Allora cercò di giocare d’astuzia: si mise a pregare Greuceano di fare un buco nella
parete, perché lei potesse almeno vedere in faccia il suo nemico. Greuceano finse di
volerla accontentare, e fece il buco nella parete.
Ma il Fabbro del Mondo era pronto lì dietro con l’immagine di ferro di Greuceano
incandescente e quando la gigantessa mise le labbra nel foro per inghiottirlo, egli le mise
in bocca l’immagine e gliela spinse giù per la gola. Quella inghiottì, trangugiò, e morì sul
colpo. Il suo corpo diventò un gran mucchio di ferro, e così tutti si liberarono di lei.
Il Fabbro del Mondo aprì la porta della sua torre, e lui, i suoi uomini, Greuceano e il
fratello uscirono, e festeggiarono la grande vittoria per tre giorni e tre notti. Lui
specialmente era contentissimo per quel gran monte di ferro; non perse tempo, e ordinò ai
suoi operai di preparare per Greuceano un carro con tre cavalli, tutti di ferro; e quando il
lavoro fu pronto, lui vi soffiò sopra e gli diede la vita.
Greuceano prese commiato dal Fabbro del Mondo, il suo grande amico, salì sul carro
col suo buon fratello e partì.
Andarono e andarono, fino a quando arrivarono a un bivio. Qui si fermarono per
riposare, poi Greuceano staccò uno dei suoi cavalli dal carro e lo diede a suo fratello,
perché portasse all’Imperatore Rosso la buona notizia del ritorno vittorioso dell’eroe
dorato. Lui, col carro, rimase un po’ indietro, e procedette lentamente, sdraiato sul sedile.
E mentre era per via, passò vicino a un diavolo zoppo che stava lì per impedire ai
viaggiatori di passare. Il diavolo aveva paura di affrontare Greuceano, ma per non
lasciarlo passare senza far assaggiare anche lui la sua malignità, tolse il chiodo che teneva
fermo il mozzo di una delle ruote posteriori e lo buttò indietro lontano. Poi disse a
Greuceano: - Guarda, amico, che hai perduto il chiodo: va’ a cercarlo.
Greuceano, saltando giù dal carro, dimenticò di prendere la sua spada.
Così, mentre era lontano, il diavolo gli rubò la spada e, sedutosi sul ciglio della via, si
batté tre volte sulla fronte la lama, e diventò un macigno.
Greuceano ritrovò il chiodo, lo fissò bene alla ruota, risalì sul carro e riprese il viaggio,
senza notare che non aveva più la spada.
E ora state bene a sentire quel che successe al povero Greuceano.
Un dignitario dell’Imperatore Rosso si era accordato con il diavolo perché gli facesse
sposare la figlia dell’imperatore. Il diavolo zoppo sapeva che Greuceano, senza la sua
spada, era anche lui un uomo come tutti gli altri: per questo gliel’aveva rubata, e l’aveva
data a quello scellerato del dignitario. Costui si presentò all’imperatore e gli chiese la
figlia, dicendo che era stato lui a riportare la grande vittoria.
L’imperatore, vedendogli la spada, gli credette, e così diede ordine che si celebrassero
le nozze. Mentre la corte si preparava a festeggiare le nozze della principessa con il finto
eroe che diceva di aver ripreso il Sole e la Luna ai giganti, ecco giungere il fratelli di
Greuceano, portando la notizia che Greuceano stava per arrivare.
L’infame dignitario, sentita la notizia, corse dall’imperatore a dirgli che si trattava di
un imbroglione, e che quell’uomo doveva essere imprigionato. E l’imperatore gli
credette. Il dignitario aveva fretta, e cercava in tutti i modi di affrettare le nozze,
pensando che, una volta sposato con la figlia dell’imperatore, potevano anche venire
cento Greuceano senza che lui dovesse correre alcun pericolo, avendo ormai concluso
tutto. Ma all’imperatore tutta quella fretta non piaceva, e così mandava in lungo i
preparativi.
Dopo non molto tempo, ecco arrivare Greuceano. Quando si presentò all’imperatore,
costui non sapeva più raccapezzarsi. Pur credendo che lui fosse il vero Greuceano, non
poteva capire come la sua spada fosse finita nelle mani del dignitario. Ma quando fece
notare a Greuceano che gli mancava la spada, questi ripensò al suo incontro col diavolo
zoppo, e si rese conto di aver visto quel macigno sulla via solo dopo che aveva ritrovato il
chiodo ed era tornato al suo carro. Capì che lì stava l’inganno.
- O illuminato imperatore, - disse allora - tutti dicono che sei un uomo giusto: rendi
giustizia, ti prego, anche a me. Hai aspettato tanto: aspetta ancora un poco, per vedere con
i tuoi occhi la verità.
L’imperatore accettò di aspettare fino al ritorno di Greuceano. Questi salì nuovamente
sul carro e andò a rotta di collo con i cavalli di ferro fino al luogo dove il Maligno gli
aveva preso il chiodo. Là trovò il macigno.
- O essere inutile e rovina degli uomini, - gli disse - ridammi la spada che ma hai
rubato, altrimenti ti riduco in polvere.
Il macigno non si mosse neppure.
Allora Greuceano si batté la fronte per tre volte, diventò una clava di acciaio e
incominciò a colpire la pietra, tanto che ne tremava la terra. A ogni colpo cadevano
schegge di pietra. Colpì e colpì, fino a quando ebbe distrutta la cima del macigno. Allora
questo incominciò a tremare e a chiedere perdono. Ma la clava colpì ancora più forte, e
colpì e colpì, fino a ridurre il macigno in polvere. Quando non ne fu rimasto più niente,
cercando nella polvere, Greuceano vide lì in mezzo la sua spada.
Allora, senza indugio, corse a ripresentarsi all’imperatore.
- Sono pronto, o grande imperatore, - gli disse - a far vedere a chiunque di che cosa è
capace Greuceano. Fa’ venire qui quel tuo dignitario svergognato e ingannatore, così
avrai una spiegazione.
L’imperatore lo fece venire.
Quando quello arrivò e vide il cipiglio di Greuceano, prese a tremare e a chiedere
perdono, e raccontò per filo e per segno com’era capitata nelle sue mani la spada
dell’eroe dorato.
Greuceano chiese grazia per lui, e l’imperatore gli lasciò la vita, ma lo caccio
dall’impero. Poi tolse dalla prigione il fratello di Greuceano e ordinò che si celebrassero
le nozze imperiali.
I festeggiamenti furono tanti, che durarono tre settimane.
« Ultima modifica: 01 Marzo 2009, 00:45:06 da ramingo »
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sotto questa maschera troverai un volto, ma quel volto non é il mio
più di quanto lo sia la carne o le ossa ancora più sotto di esso.

ramingo

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Favole Romene
« Risposta #1 il: 01 Marzo 2009, 00:48:19 »

LE DODICI PRINCIPESSE
E
IL CASTELLO STREGATO1
di Petre Ispirescu
C’era una volta, e a quel tempo c’era, e così via, eccetera...
C’era una volta un bel giovanotto. Siccome era figlio di povera gente, doveva
guadagnarsi il pane quotidiano lavorando un po’ qua e un po’ là.
Tutti gli altri giovani del villaggio lo invidiavano, perché era sempre ben pulito e
gentile. Perciò sfogavano la loro invidia burlandosi sempre di lui; ma lui tirava dritto a
lavorare, e non dava peso alle loro chiacchiere. Pareva che non le capisse nemmeno.
Quando costoro si riunivano la sera e incominciavano a dire stupidaggini, lui faceva finta
di niente e non si lasciava ferire dalle loro frecciate.
I contadini che gli davano da lavorare, erano molto contenti di lui, anzi addirittura se
lo contendevano. Quando passava per il paese, le ragazze si davano di gomito l’un l’altra,
e lo seguivano con lo sguardo di sottecchi, le ciglia basse. E non avevano torto! Era
giovane e di bell’aspetto. I capelli, neri come l’ala del corvo, gli ricadevano folti e lisci
1 Titolo originale dell’opera Cele douàsprezece fete de 􀀀mpàrat i palatul fermecat, tradotta da Laura Draghi,
pubblicata da Giunti, 1973.
sul colletto bianco come la neve; e gli occhio!... Due occhi che, vi assicuro, miei cari,
facevano uscir di senno le ragazze.
Loro, poverine, quando portava le mucche all’abbeveratoio, facevano a gara per
attaccar discorso con lui; ma lui non le guardava neppure, come se avesse di meglio a cui
pensare. Le ragazze si consolavano parlando di lui e chiamandolo “il principe azzurro del
villaggio”: un nome che gli stava proprio a pennello!
Non si sa come, le mucche custodite da lui diventavano più grasse di quelle affidate
agli altri garzoni. Certo doveva condurle là dove l’erba era più gustosa. Dove passava lui,
anche gli steli del prato parevano più verdi!
Era nato, si vedeva, sotto una buona stella, e la Fortuna aveva certamente dei piani su
di lui. Ma lui non si vantava di niente; quel che il futuro gli teneva in serbo, gli era
sconosciuto. Semplice e modesto andava al suo lavoro, non torceva un capello a nessuno
e non diceva mai una parola di troppo. E proprio per questo lo avevano a noia gli altri
giovani!
Un giorno di primavera, si era seduto all’ombra di un albero fronzuto. Aveva trovato
proprio un bel posticino. Lì nei pressi scorreva un ruscello, che scaturiva dall’alto di un
poggio vicino, e, col suo mormorio, invitava al sonno. L’albero, che stendeva così
generosamente la sua grande ombra fresca sul giovane, s’innalzava tanto maestoso nel
cielo da parer che volesse toccare le nubi con la vetta. Sui rami poderosi cinguettavano
tanti uccelli, indaffarati a costruirsi il nido. Le loro voci invitavano ad innamorarsi
chiunque le sentisse. Uno che aveva trovato un luogo simile non poteva certo dirsi uno
sciocco! Sciocchi erano i giovani del villaggio a prenderlo in giro. Con il capo sulle
ginocchia, egli fu preso da una dolce sonnolenza, e dormì per qualche istante.
Dormì su per giù il tempo che ci ho impiegato io a incominciare questa storia; poi si
risvegliò e balzò in piedi. Aveva fatto un sogno bellissimo.
Gli era apparsa una Fata, più bella di qualsiasi creatura della terra, che gli aveva
comandato di andare subito dal Re di quei paesi: avrebbe trovato presso di lui la sua
fortuna.
- Che vorrà dire tutto questo? - si era chiesto al risveglio il giovanotto; e aveva
incominciato a rimuginare dentro di sé, senza però riuscire a spiegarsi il significato di
quel sogno.
Non immaginava che la buona stella, sotto la quale era nato, incominciava a splendere
per lui.
Il giorno dopo, portando al pascolo le sue bastie, rifece lo stesso sentiero e si ritrovò
sotto lo stesso albero. Anche questa volta si addormentò tra le sue grosse radici e sognò lo
stesso, identico sogno.
- Qui gatta ci cova -, si disse, e restò immerso in mille pensieri fino a sera.
Il terzo giorno, tornò dritto filato all’albero, si rimise a dormire, e sognò ancora lo
stesso sogno. Ma, questa volta, la Fata gli ordinò di decidersi immediatamente ad
obbedire, altrimenti l’avrebbe punito duramente.
Allora lui si alzò, tornò a casa con le mucche, le condusse nella stalla, e poi andò dal
suo padrone e gli disse:
- Padrone, voglio andarmene per il mondo a cercar fortuna. Ho fatto per tanto tempo il
servitore, e adesso vorrei imparare qualcosa di più. Siate buono, e datemi la mia paga!
- E perché vuoi andartene, ragazzo? La paga è troppo scarsa? Non ti do abbastanza da
mangiare? Dammi retta, resta qui, e io ti troverò in paese una brava ragazza con un po’ di
dote, anzi, anch’io ci aggiungerò qualcosa...Sistemati qui come tutti gli altri fittavoli, e
non andare a tribolare per il mondo, a rischio di morir di fame.
- Sono stato bene da voi, padrone mio, e da mangiare me ne avete dato abbastanza. Ma
mi è preso un non so che, come una smania di andare a vedere un po’ di mondo, e non c’è
niente che mi possa far cambiare idea.
Quando il padrone vide che non poteva persuaderlo a restare, gli contò fino l’ultimo
soldo la paga che gli doveva, e lo lasciò partire.
Il giovanotto lasciò il villaggio e se ne andò di premura al palazzo del Re, dove chiese
di essere assunto a servizio. Il capo giardiniere fu ben contento di prendersi lui questo
aiutante così bello e garbato: le principesse lo avevano rimproverato spesso perché faceva
lavorare nei giardini del palazzo solo gli uomini brutti e rozzi.
Questo ragazzo non potrà non piacere a chiunque, pensò il capo giardiniere. Siccome i
suoi abiti erano quelli di un guardiano di mucche e per di più tutti rovinati dal lungo
viaggio, il capo giardiniere gli diede un vestito nuovo, degno di chi lavorava nei giardini
imperiali: e, vi assicuro, questo gli stava perfettamente addosso e gli donava molto.
Il suo compito principale era quello di comporre ogni mattina dodici mazzi di fiori da
offrire alle principesse, le dodici figlie del Re, quando uscivano a passeggio nei giardini.
Queste principesse erano stregate. Difatti, un maleficio aveva fatto diventare di
ghiaccio il loro cuore, così che non potevano amare nessuno ed erano destinate a restare
zitelle. Per di più, avevano una voglia insaziabile di ballare. Ballavano tutte le notti per
tutta la notte, e consumavano ogni volta un paio di scarpine di seta.
Ma nessuno sapeva dove andassero a ballare.
Il Re era molto contrariato di dover spendere tanti soldi nelle scarpine da ballo per le
sue figlie; ma ancora di più si addolorava di avere delle figlie dal cuore di ghiaccio, che
respingevano tutti i loro pretendenti.
Egli aveva mandato dei banditori in tutte le sue terre, e addirittura in altri regni: chi gli
avesse rivelato - diceva il bando - il luogo dove le sue figlie, una notte dopo l’altra,
consumavano un paio di scarpine da ballo, avrebbe potuto scegliere una come sposa.
Tutti sapevano che il Re le chiudeva ogni notte in una sala del palazzo, dietro nove
porte di ferro con pesanti chiavistelli. Ma nessuno era mai riuscito a sapere dove
andavano la notte, e dove consumavano le loro scarpine: nessuno le aveva mai viste uscir
dal palazzo.
Sembrava che dovessero continuare così per tutta la vita, tale era la loro cattiva sorte.
Quando il bando del Re fu conosciuto da per tutto, incominciarono ad arrivare a frotte
i pretendenti: vennero figli di Re e di Principi, e figli di famosi Boiardi2, e anche figli di
Boiardi meno famosi. E ciascuno di loro fece la guardia per una notte intera davanti alla
porta delle principesse.
Ogni mattina, il Re aveva aspettato con grande impazienza i pretendenti, con la
speranza che gli portassero buone nuove; ma tutti i giovani che la sera prima si erano
offerti da fare la guardia, la mattina dopo erano scomparsi. Scomparsi senza lasciar
traccia.
Così erano già finiti undici giovani. Gli altri allora incominciarono a cercare delle
scusa, perché non se la sentivano più di correre un pericolo di quel genere. E preferirono
rinunciare alle belle principesse, per amore delle quali tanti avevano già perso la vita.
Così, ad uno ad uno, voltarono le spalle al palazzo del Re e tornarono a casa loro,
abbandonando le principesse alla loro sorte.
Anche il Re ebbe paura. Gli dispiaceva che tanti bei ragazzi si fossero sacrificati così,
e non propose più a nessuno di far la guardia davanti alla porta delle sue figlie.
Non gli restò altro che seguitare a comprare tutti i giorni dodici paia di scarpine da
ballo! Le sue figlie, pensava, sarebbero diventate vecchie lì a palazzo, e col tempo
avrebbero intrecciato trecce sempre più bianche, senza che vi si fosse mai posata una
corona da sposa.
2 Così erano chiamati i nobili, proprietari di vasti territori.
Intanto, il giovane seguitava il suo lavoro. Alle principesse piacevano i suoi mazzi di
fiori, e il capo giardiniere non aveva niente da ridire sul suo giovane aiutante. Il
giovanotto non alzava mai gli occhi sulle dodici sorelle; però, ogni volta che porgeva il
suo mazzo alla più giovane, il suo viso diventava - chi sa perché? - del colore di una rosa
di maggio, e il cuore quasi gli scoppiava. La principessa l’aveva notato, ma pensava che
fosse la timidezza a farlo arrossire.
Tutti i giorni era la stessa storia, ma lui diceva a se stesso: questo non è un bocconcino
per te! Il suo cuore, però, si struggeva per la più giovane delle principesse, e col cuore
non si ragiona troppo bene.
Incominciò a desiderare di poter fare la guardia anche lui alla porta delle principesse;
ma non poteva dimenticare qual era stata la sorte degli altri!
Un giorno, la principessa più giovane si lasciò scappar detto che l’aiutante del capo
giardiniere arrossiva appena le porgeva i fiori, e disse anche che le pareva un bel giovane.
Quando la maggiore sentì queste parole della sorella, incominciò a rimproverarla e a
burlarsi di lei; non le piaceva che parlasse con tanta simpatia di qualcuno, e tanto meno di
un povero giardiniere.
Quanto al giovanotto, ormai era deciso di chiedere al Re il permesso di far la guardia
alla porta delle principesse; esitava ancora un po’ perché non sapeva se questo fosse
troppo sfacciato, e temeva di perdere il posto per questa sfacciataggine. Il Re, chi sa, lo
avrebbe scacciato dal palazzo, e lui non avrebbe neppure più offerto i fiori alle sue figlie.
Se l’indomani non avesse più potuto sfiorare le mani bianche come gigli, morbide e
delicate della più giovane delle principesse, sarebbe morto di dolore.
Giorno e notte era turbato da questi pensieri, e non sapeva che cosa fare per
accontentare il desiderio del suo cuore: ne andava della sua vita stessa!
Una sera, prima di prender sonno, sentì con tanta forza questo desiderio, che il cuore
fu lì lì per scoppiargli dentro il petto. Allora gli apparve in sogno la Fata, nella conca
fiorita del bosco.
La Fata disse: - Va’ nell’angolo del giardino, quello rivolto al tramonto. Là troverai
due pianticelle d’alloro, una rossa e una dorata, e accanto a queste una zappa d’oro, una
brocca d’oro e un drappo di seta. Prendi le due pianticelle e trapiantale dentro due bei
vasi. Lavora la terra con la zappa d’oro, annaffiale con la brocca d’oro, e asciugale
delicatamente col drappo di seta. Abbine cura come della pupilla dei tuoi occhi. Quando
saranno alte come te, esse ascolteranno ogni tua preghiera ed esaudiranno ogni tuo
minimo desiderio -.
Poi la Fata, dopo avergli raccomandato anche altre cosa necessarie, scomparve. Ma il
giardiniere, questa volta, non perse tempo.
Appena destato da questo sogno, corse nell’angolo abbandonato del giardino, quello
rivolto al tramonto. E non vi sto a dire la sua felicità, quando trovò tutto tale e quale la
Fata gli aveva predetto nel sogno. E ora sì che si stropicciò gli occhi, e si pizzicò braccia
e gambe: dormiva ancora, o tutto quel che vedeva era realtà?
Quando fu convinto che non si trattava di un sogno ingannatore, tese le mani verso le
pianticelle d’alloro.
Le curò come meglio sapeva, lavorò la terra con la zappa che aveva trovato lì vicino,
le annaffiò con la brocca d’oro, ne asciugò le foglie col drappo di seta... e insomma ne
ebbe cura, secondo gli ordini della Fata, come della pupilla dei suoi occhi.
Le pianticelle d’alloro crebbero e diventarono due forti arboscelli, e non ce n’erano di
più belli di loro nei dintorni.
Quando furono diventati alti come lui, il giovane si avvicinò a loro, e disse
(gliel’aveva suggerito la Fata):
O piante belle, piante d’alloro,
alloro rosso, alloro d’oro,
con la zappa vi ho zappato,
con le braccia vi ho annaffiato,
con la seta vi ho asciugato,
ora aiutatemi, se vi è possibile
a diventar quando voglio invisibile.
Appena detto questo, vide sbigottito apparire su uno degli arbusti un germoglio, e poi
crescere a vista d’occhio. Di lì a poco era già un meraviglioso fiore profumato. Allora
tese la mano e lo colse, poi lo nascose sotto la camicia (anche questo glielo aveva
raccomandato la Fata).
La sera, quando le principesse furono entrate nella loro camera dalle sette porte chiuse
a chiavistello, anche lui vi entrò. Vedeva tutto quel che facevano, ma loro non vedevano
lui. Le principesse si pettinarono bene i capelli e indossarono delle splendide vesti, poi si
adornarono di gioielli, e furono pronte per uscire.
Lui le osservava pieno di stupore, deciso a non perderle di vista neppure un attimo:
voleva finalmente sapere dove sarebbero andate e che cosa avrebbero fatto.
La maggiore disse alle sorelle: - Siate pronte, mie care?
- Siamo pronte - risposero.
Allora la maggiore batté il piede sul pavimento, ed ecco, il pavimento di legno si aprì.
Attraverso l’apertura, le principesse scesero, e cammina, cammina, arrivarono a un
giardino, tutto cinto da un muro di rame.
Di nuovo la maggiore batté il piede a terra, e una porta d’acciaio si aprì nel muro per
lasciarle passare. Il giovanotto scivolò silenziosamente dietro a loro, ma senza
accorgersene pestò lo strascico della più giovane. Questa si voltò di scatto, ma non vide
nessuno. Allora chiamò le sorelle e disse: - Mi sembra che qualcuno mi abbia pestato lo
strascico.
- Quanto sei paurosa, sorellina! Chi potrebbe esser qui, o averci seguite? Neppure
l’Uccello Grifone, fatato com’è, riuscirebbe a trovare la strada! Forse sei rimasta
impigliata a uno spino, e hai creduto che qualcuno ti abbia pestato lo strascico. Ora
smettila con queste bambinate!
La più giovane delle principesse si chetò; ma il giovane non si scostò dal suo fianco.
Attraversarono un bosco dalle foglie tutte d’argento, attraversarono un altro bosco
dalle foglie tutte d’oro, arrivarono in un bosco dalle foglie tutte di diamante, che
scintillavano talmente da abbagliare gli occhi. Alla fine, le sorelle si trovarono sulla
sponda d’un lago.
In mezzo al lago c’era un’isola e sull’isola si ergeva un castello.
In tutta la sua vita, il nostro giovanotto non aveva mai visto un edificio così bello:
neppure il palazzo dello Zar poteva stargli a pari, neppure la luce del sole! Ed ecco
costruito con tanta arte, che quando si saliva verso di esso, pareva di scivolare in giù, e
quando se ne scendeva, pareva di volare in su.
Dodici navicelle, guidate da rematori vestiti uno più splendidamente dell’altro,
aspettavano le sorelle sulla riva. Ciascuna di loro salì su una delle imbarcazioni, ma il
giardiniere si sedette accanto alla più giovane.
Le navicelle scivolarono lievi come cigni; ma quella dove aveva preso posto la
principessa più giovane, rimaneva sempre più dentro. Il rematore si chiese perché mai
oggi pesasse più del solito, e si mise a vogare con tutte le sue forze per raggiungere gli
altri.
Dall’isola giungeva fino a loro della musica; erano note così straordinarie, che
chiunque le sentisse doveva ballare, volesse o no. Le ragazze corsero come il lampo
dentro il castello, e subito incominciarono a volteggiare con dei giovani che erano stati ad
attendere sul lago, e ballarono e ballarono, fino a quando le loro scarpine si spaccarono in
due.
Il giovane giardiniere non le aveva mai perse di vista. Le seguì anche nel salone da
ballo tutto adorno d’oro e di pietre preziose, che sembrava infinito; innumerevoli fiaccole
spandevano luce tutto intorno. Dalle pareti bianche come la neve scendevano, luccicando
con un bagliore accecante, delle strisce d’oro tempestate di zaffiri e di rubini che
mandavano sprazzi di fuoco.
Il giovanotto si mise in un angolo e contemplò tutte queste meraviglie. Non aveva mai
immaginato di poter vivere un’avventura come quella. Ma poteva restare a lungo lì
fermo? No di certo! Anche lui incominciò a volteggiare, senza volere, per il salone,
perché era impossibile restar fermi ascoltando le note di quella stranissima musica.
Persino i candelabri, i tavoli e le sedie si erano messi a ballare!
Non potete immaginare quanto erano belle quelle canzoni da ballo e com’era
incantevole l’accompagnamento. Arpa e flauto, viola e liuto, piffero e cornamusa
suonavano insieme, con un effetto bellissimo; anche i migliori musicanti del mondo non
avrebbero creduto alle loro orecchie, o sarebbero diventati verdi dall’invidia.
E che cosa facevano le ragazze? Ballavano la horà3, la bàtutà4, il br􀀀u5, e altre danze
ancora: tutte le danze conosciute le ballarono, piroettando e saltando senza posa. Ora si
capiva perché le loro scarpine si spaccavano in due!
Ballarono dunque, le principesse, fino allo spuntar dell’alba. Allora improvvisamente
la musica tacque, e, come spuntata dal pavimento, apparve una tavola lunghissima, sulla
quale si trovava ogni sorta di leccornie immaginabili. Le ragazze si sedettero a tavola, e
mangiarono e bevvero allegramente. E intanto dei moretti in magnifici costumi
continuavano a servire sempre nuovi cibi e bevande.
Quando le principesse si furono alzate da tavola, si accinsero a tornare a casa, e il
giovanotto le seguì.
Mentre passavano per il bosco dalle foglie d’argento, lui strappò un ramoscello da un
albero, né per me né per te, ma lo portò con sé.
In quell’attimo, nel bosco si sentì frusciare e sibilare come quando c’è un temporale in
arrivo; però non cadde foglia, e neppure una foglia si mosse, come se non spirasse un
alito di vento.
Le ragazze si allarmarono: - Che significherà, sorelline - si chiesero l’un l’altra.
3 Danza popolare romena.
4 Ibidem.
5 Ibidem.
- Che cosa volete che significhi, - disse la più grande: - forse è l’uccellino che fa il
nido sulla torre più alta del palazzo di nostro padre. Solo lui può venire fin qui.
Andarono avanti, arrivarono a casa e scivolarono nella camera chiusa da sette porte,
attraverso l’apertura segreta.
La mattina dopo, l’aiutante del capo giardiniere porse i fiore alle principesse, ma aveva
nascosto abilmente il ramoscello d’argento nel mazzo destinato alla più giovane.
Lei si meravigliò, scruto il giovanotto, ma non riuscì a spiegarsi perché il ramoscello
d’argento fossa capitato in mezzo ai suoi fiori. La notte dopo, andò allo stesso modo. Il
giovanotto scivolò dietro alle principesse, però questa volta colse un ramoscello nel bosco
dalle foglie d’oro, per nasconderlo dentro il mazzo della principessa più giovane.
E quando si sentì frusciare e soffiare nel bosco, la principessa più grande tranquillizzò
di nuovo le sorelle.
Il giorno dopo, il giardiniere porse alla principessa più giovane i fiori col ramoscello
d’oro, e in quel momento preciso lei sentì una trafittura bruciante nel cuore.
Più tardi, al momento buono, diede ad intendere alle sorelle che voleva un po’ uscire a
passaggio da sola. A una curva del sentiero, incontrò il giovane giardiniere, lo fermò e gli
chiese: - Da dove viene il ramoscello che mi hai messo nel mezzo do fiori?
- Lo sai molto bene, principessa.
- Dunque ci sei venuto dietro di nascosto e hai visto dove passiamo la notte.
- Può darsi, principessa.
- Come ti è riuscito, senza che ti abbiamo visto?
- È un segreto.
- Su, prendi questo sacchetto di monete e non dire a nessuno quel che sai!
- Il mio silenzio non puoi comprarlo, principessa.
- Se sentirò dire che hai chiacchierato, ti farò tagliare la testa.
Disse parole dure, ma il suo cuore avrebbe voluto dirne altre. Questo giovane
giardiniere, davvero, le era gradito ogni giorno di più.
Egli seguì le sorelle anche la terza notte, e questa volta colse un ramoscello nel bosco
dalle foglie di diamante. Di nuovo, tre gli alberi, ci fu un fruscìo e un soffio impetuoso, e
di nuovo la più grande dovette far coraggio alle altre. Soltanto la sorella più giovane - chi
sa perché - si rallegrò in segreto.
Quando, la mattina dopo, scorse il ramoscello di diamante nel suo mazzo, osservò
bene il giovane giardiniere, e le parve che proprio non ci fosse alcuna differenza tra lui e i
figli dei Re e dei boiardi. Tanto, ormai, le piaceva.
E anche lui, timidamente, ma teneramente, guardò la principessa, e la vide un po’
imbarazzata; però fece finta di non aver notato nulla e se ne andò per la sua strada.
Ma le sorelle l’avevano vista parlare con lui, e incominciarono a riderle dietro e a
beffarsi di lei. La più giovane delle principesse sopportò le loro beffe senza dire niente.
Solo, non riusciva a spiegarsi perché il giovanotto fosse riuscito a seguirle e a sorprendere
i loro vagabondaggi notturni. Quello, diceva a se stessa, non era uno sciocco, altrimenti
non l’avrebbe saputa ancora più lunga dei furbi Elfi del bosco.
E, sì, com’era bello il suo portamento, e com’erano armoniosi i tratti del suo volto!
Non sembrava assolutamente un semplice servitore, e per di più aveva un carattere così
amabile, delle maniere così gentili!
Le ragazze tornarono nelle loro camera, e allora la più giovane disse che il giovane
giardiniere sapeva tutto su di loro. Tennero consiglio, fecero delle proposte, e alla fine
decisero di riserbargli la sorte degli altri giovani: avrebbe perso il senno e sarebbe morto
di crepacuore.
Il nostro eroe però era scivolato non visto dentro la camera delle principesse, andò
dalle due piante d’alloro e disse all’albero rosso:
Alloro bello, alloro rosso,
morir non voglio, morir non posso:
con la zappa ti ho zappato,
con le brocca ti ho annaffiato,
con la seta ti ho asciugato.
Insegnami tu, perché tocchi anche a me
quello che hanno i figlioli dei Re!
E anche quella volta vide spuntare un germoglio che crebbe e diventò un fiore
meraviglioso. Egli lo colse e se lo nascose sotto la camicia. Ed ecco, la sua pelle bruciata
dal sole e indurita dal vento diventò chiara e fine: sentì poi che anche nella sua mente
accadeva qualcosa di strano, e dopo qualche momento comprese che pensava e giudicava
diversamente da prima. Senno e intelligenza non gli erano mai mancati; ma ora era come
se sapesse improvvisamente molte più cose e avesse conosciuto paesi e genti lontani. E,
per incanto, gli stava addosso uno di quei magnifici abiti che portano soltanto i figli dei
Re.
Così mutato, chiese udienza al Re, e gli disse che voleva far la guardia quella notte
davanti alla camera delle principesse.
Al Re faceva compassione quel bel giovane, e gli consigliò di tagliar la corda prima
che poteva, evitando così la sorte degli altri pretendenti. Ma il nostro eroe rimase fermo
nella sua decisione, e al re non restò altro che cedere. Non gli passò per la mente che
davanti a lui stesse l’aiutante del suo capo giardiniere.
Il Re lo condusse dalle sue figlie, e anche loro non lo riconobbero, tanto era mutato.
Solo alla più giovane, il cuore disse che si trattava di colui che aveva scelto in segreto.
Quando si misero in cammino la notte seguente, le principesse lo condussero con sé.
Ma lui sapeva quel che lo aspettava, e stata in guardia.
Arrivati al castello stregato, le principesse incominciarono a ballare, e ballarono fino
allo spuntar dell’alba; poi si sedettero a tavola. All’aiutante del giardiniere fu portata una
bevanda, della quale avevano bevuto molti altri, perdendo il senno e la vita. E questa fine
era stata decisa anche per lui.
Allora lui si volse alla principessa più giovane, con occhi lucidi di lacrime, in cui
brillava il fuoco dell’amore, e le chiese, adirato:
- Vuoi anche tu che io beva? Se vuoi, morirò di amore per te, perché il tuo cuore è di
ghiaccio!
- No, il mio cuore non è di ghiaccio. Da quanto ti conosco, è vivo e caldo - rispose lei.
- Non bere! Piuttosto vivrò anch’io con te come giardiniera nel palazzo di mio padre!
Appena sentite queste parole, il giovane versò la bevanda per terra, si avvicinò a lei e
disse:
- Non aver paura, principessa. Non diventerai mai da meno delle tue sorelle, su questo
sono pronto a scommettere la testa!
Tutti avevano sentito questo dialogo. Ed ecco, di colpo, l’incantesimo fu rotto, e le
ragazze si ritrovarono al palazzo del padre.
Il palazzo stregato era scomparso come una nebbia, come se non ci fosse mai stato.
Ma il re so prese la barba con la mano, e rimase lì come impietrito dallo stupore di
rivedere insieme sua figlia e quello che era stato, gli spiegarono, il suo giardiniere. Questi
raccontò per filo e per segno quel che era successo in quelle notti. Allora il Re diede la
sua ultima figlia al giovane così bello e intrepido.
E non passò molto tempo, che anche le altre principesse vennero da lui con i loro
pretendenti. E finalmente da per tutto vi furono felicità ed allegria; e se al posto della mia
voce potessero parlare cento voci, non basterebbero a dire e cantare tutto questo.
Prima delle nozze, la più giovane delle principesse chiese allo sposo quale forza
l’avesse aiutato a scoprire l’incantesimo segreto ed a rompere il maleficio. Egli le
raccontò tutto. Ma lei non volle che il suo sposo le fosse legato da forze magiche: doveva
essere uguale a lei, un essere umano in tutto e per tutto. Fece tagliare i due ramoscelli e
ne gettò legna e foglie nel fuoco.
Allora la coppia celebrò le nozze e visse nel nostro variopinto mondo, felice e
contenta, fino a tardissima età.
E io me ne rimontai a cavallo e galoppai fin qui, e così via, eccetera...
Connesso

sotto questa maschera troverai un volto, ma quel volto non é il mio
più di quanto lo sia la carne o le ossa ancora più sotto di esso.

ramingo

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Favole Romene
« Risposta #2 il: 01 Marzo 2009, 00:51:22 »

Connesso

sotto questa maschera troverai un volto, ma quel volto non é il mio
più di quanto lo sia la carne o le ossa ancora più sotto di esso.

 

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