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Autore Topic: Racconti  (Letto 73123 volte)

ramingo

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Racconti
« Risposta #30 il: 13 Settembre 2008, 18:07:57 »

GUSCIO

E pioveva anche fuori.
Gocce di pioggia scivolavano sul vetro. Come le lacrime che le accarezzavano il viso.
Lampi ferivano le nubi. Come le parole che le colpivano le orecchie.
Tuoni conquistavano con ritmo crescente il cielo. Come i singhiozzi che ne scuotevano il corpo.
Era freddo anche fuori.

Vennero poi il buio e il silenzio.
Anche fuori.

Emma non aveva niente da donare al mondo.
Grazie a questa osservazione oggettiva, prese, per la prima volta, l’unica decisione su cui non ebbe mai dubbi.
Decise di espiare questo suo peccato con la convinzione di potersi riappropriare della sua anima eliminando il suo corpo.
Decise anche di  mortificarlo. Gli negò il cibo.
Il mondo non aveva più niente da donare ad Emma.

Dopo quella decisione non versò la lacrima superflua.
Dopo quella sera ebbe una meta raggiungibile in solitaria.
Dopo quel temporale non disse più una parola.

Si spegneva disegnando e dipingendo.
Trasferiva la sua essenza  nel carboncino, nella matita, nei colori consumati negli schizzi
graffiati distrattamente sui fogli di ruvida carta, nei soggetti riprodotti meticolosamente sulla tela.
Era un lavoro lento. Continuo.
Trasferì la sua rabbia in un tramonto sul mare.
La mise in quelle nubi che coprivano il cielo e che si tingevano di rosso sotto, mentre sopra erano nere e grigie. Quasi di roccia.
Trasferì la sua tristezza nelle pieghe di una conchiglia sulla sabbia.
Ogni granello era un pensiero che la assillò, piccolo e fastidioso, capace di nascondersi in ogni dove.
Trasferì la sua solitudine in uno steccato che racchiudeva uno prato che nessun
animale domestico calpestava.  Nell’inutile chiavistello sulla sua apertura. Nella greppia vuota divelta.
Trasferì la sua ira in un cavallo nero che, dopo una folle corsa, si impennava sul bordo di una scogliera.
Trasferì il suo egocentrismo in una trottola senza la punta. Piegata su di un lato, tristemente riposta in un cassetto di una scrivania dimenticata in una soffitta.
Trasferì la sua accidia in un violino impolverato. Senza corde. Negli strati di polvere si contavano gli anni sprecati in disquisizioni inutili sul cosa fare che non venne mai fatto.
Trasferì i suoi affetti in un ciliegio. Ben ancorato a terra, frondoso, carico di frutti di un intenso rosso amaranto.
Trasferì la sua allegria in un ruscello di montagna, che strisciava fra gli alberi formando piccole cascate. Ogni goccia zampillante era una risata. Sempre uguale e diversa.
Trasferì la sua spensieratezza nei panni stesi ad asciugare sui fili in un giardino. Le  mani e i piedi di una figura di bimba che vi correva in mezzo, racchiudevano il suo incanto innocente. Nel vento che li straziava, l’ombra del disincanto che un giorno avrebbe lacerato anche lei.
Trasferì il suo amore in una tela che ricoprì di bianca tempera.
Oramai non aveva la forza di alzarsi. Lo fece da seduta. Ad occhi chiusi. L’amore il più delle volte la rese cieca.
Per ultimo trasferì la sua paura. Sempre sulla stessa tela. La impresse con la tempera rossa nella parola EMMA.

Tutto ciò è quello che rimane oggi di lei.
Tutto ciò parla di  Emma più di quanto mai la stessa Emma fu in grado di dire di se stessa.
A guardarla ora, Emma non è altro che un guscio vuoto di una cicala, figlia della terra, dimorante dell’aria, dissolta su di un ramo al sole d’estate.





frinire della cicala
« Ultima modifica: 17 Settembre 2008, 15:25:10 da ramingo »
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Racconti
« Risposta #31 il: 29 Gennaio 2009, 18:42:50 »

"il colloquio tra due individui a cui manca il senso dell'altro potrebbe apparire un dialogo
 ma in realtà è un semplice scambio di dichiarazioni unilaterali. viene a mancare
 inevitabilmente la comunicazione"
(DAISAKU IKEDA)




SCELTA

Andrea prendeva il largo con la barca a remi del nonno ogni alba dell'ultimo semestre. Rammendava le reti la sera prima e le riponeva con cura a prua. Poi le stendeva nell'acqua nera come l'inchiostro e aspettava che si riempissero dei doni del dio Nettuno. Rito antico che gli serviva per vivere il nuovo presente. Una cristallina mattina di dicembre decise di acquistare la sua "Libertà". Così chiamò la sua barca a vela di 11 metri. Con quale gioia aveva dipinto di bianco ciascuna delle singole lettere sull'azzurro dello scafo! Era domenica. Era il giorno in cui decise che il mestiere del nonno sarebbe stato anche il suo. Avrebbe però praticato la pesca a traina rimorchiandone una sola, costituita da una canna, un mulinello, un cuscino di lenza in dacron, da filo metallico autoaffondante, da un terminale in nylon e da un'esca artificiale. Ebbene, con questa semplice attrezzatura e un pò di fortuna, avrebbe pescato tonni di branco e alalunghe durante le traversate, dentici e palamite durante le circumnavigazioni insulari. Scelse una pratica di pesca metafora della Vita che aveva intenzione di condurre: la proiezione di sè verso l'insolito e verso l'imprevisto. Si sentiva vivo quando all'improvviso in un'onda che stava superando vedeva un branco venire su, muovendosi all'unisono a pelo d'acqua; e quando dalla massa incolore emergevano alcuni dorsi d’argento che come lame affilatissime tagliavano veloci la superficie dell’onda per poi sfilargli a poppa, preparandolo alla lotta che ne sarebbe derivata. In confronto quella che conduceva prima non era Vita: era diventato avvocato solo per non dare un dispiacere al padre. Ora che lui non c'era più, era tornato alla sua isola portandosi dietro una parte della sua passata non-vita: Emma.
Emma era cresciuta in città ma amava il mare e molto di più amava Andrea. Accettò con entusiasmo la decisione di trasferirsi su una delle più belle isole del Mediterraneo. Lo fece perchè solo là aveva visto una luce particolare brillare negli occhi di Andrea. Lo fece anche perchè, le dolci colline che degradavano verso la scogliera, le consentirono di realizzare il suo sogno da agronoma: rimpiantare un vitigno autoctono ritenuto dai molti ormai perso per sempre, un fantasma del passato, il cui nettare poterono apprezzare solo gli antichi romani.
Emma non si sentì tranquilla.
Andrea non la salutò prima di uscire.
Sull'imbruire la natura sembrò rispecchiare il pumbleo umore di Emma. Cielo e mare si fusero in un unico blocco di grigio granitico screziato in lontananza da fulmini ramificati che segnavano il limite del cielo. Ovvero il limite del regno del mare. Poi si alzò il vento impetuoso e onde rumorose spostarono il confine del regno della terra facendolo arretrare fino alle dune odorose su cui depose il salato sapore dell'acqua marina. Emma piantò la sua anima insieme al suo corpo sugli scogli. Lei non avrebbe arretrato di un solo passo fin quando il mare non le avesse restituito Andrea. Rimase lì per tutta la notte. E per tutto il giorno successivo. E ancora per un altro giro del mondo su se stesso e un altro giro ancora. Inutile fu l'intervento dei soccorsi che ella stessa avvertì. Le condizioni atmosferiche permisero che l'elisoccorso arrivasse per constatare che Emma non ce l'aveva fatta. Aveva vinto il mare.
Aveva chiesto di poter dire addio ad Andrea e non c'era riuscita.
Neppure Andrea potè farlo.
Approdato sul lato ovest dell'isola mise in salvo quanto rimaneva della sua "Libertà" in una insenatura e trovò riparo in una caverna.
Per i sette giorni di tempesta bevve dell'acqua che stillava dalle stalattiti che impreziosivano la volta del suo rifugio e mangiò i pesci che aveva pescato prima che il mare lo ributtasse a terra.
Accese anche un fuoco che alimentò con la legna che precedenti mareggiate raccolsero sul fondo della grotta.
Con gioia accolse il primo sole dell'VIII giorno, meno l'elicottero che lo avvistò verso le 9.
Si sentì quasi oltraggiato.
Non aveva bisogno di nessun aiuto per tornare a casa. Del resto lo avrebbe potuto fare anche dal primo giorno quando, esplorando il fondo della caverna, scoprì un passaggio nella volta che lo avrebbe condotto dritto dritto alla vecchia cava dove il nonno ricavava la calce cuocendo le pietre. Era un posto che conosceva bene.
Ci giocava da bambino, quando credeva che le pietre che il nonno frantumava fossero magiche a causa delle iscrizioni. Erano i resti di un tempio del dio Apollo.
Non ritornò semplicemente per godersi l'avventura.
Grande fu il dolore nel sapere della sua Emma, ma mai ebbe il rimorso di non essere tornato da lei. La sua nuova vita era fatta di scelte fatte secondo una scala di priorità in cui il benessere di Andrea veniva prima di tutto, tanto era profonda la cicatrice che gli aveva lasciato il padre.
Aveva scelto per lui.
Certo non si era imposto con le parole ma lo aveva reso ostaggio delle sue aspettative.
Ostaggio dell'amore egoista e cieco.
Non gli aveva dato alternative e senza almeno un'alternativa non c'è scelta.
Dal punto di vista di Andrea anche Emma aveva fatto una scelta.
Sbagliata si, ma rispettabile.
Perciò messa una croce sugli scogli, Andrea andò oltre.
Acquistò un nuovo catamarano chiamandolo "Realtà" sotto, incise sullo scafo verde scuro, la frase ”Лиса, лисица навсегда” e decise di occuparsi del vigneto a tempo pieno.
Ne fece un'attività redditizia: il suo vino ottenne la Dop. La sua vera soddisfazione fu che per merito suo l'umanità potè di nuovo godere del colore e del sapore che richiamavano i tempi degli dei. Di andare al largo aveva sempre meno voglia e gli impegni lo tenevano di nuovo in città.
Della sua vita sull'isola rimase il profilo di una croce sul confine della terra e del mare.







Qualunque cosa distrugga la libertà non è amore.
Deve trattarsi di altro, perché amore e libertà vanno a braccetto,
sono due ali dello stesso gabbiano.
(osho)





http://www.nautica.it/pescaweb/traina/vela.htm
« Ultima modifica: 04 Febbraio 2009, 17:20:13 da ramingo »
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Re:Racconti
« Risposta #32 il: 02 Giugno 2010, 19:34:29 »


Campo di grano

Dalla valle guardavano tutti verso la collina sovrastante.
Nel suo declinare graduale accoglieva uliveti, vigneti e un verde campo di grano. Un tempo era vietato piantare il grano nella zona sud della contrada, ma il motivo del divieto  lo custodivano i pochi centenari rimasti in vita e questi erano ormai forzieri dalla chiusura arrugginita e il motivo si confondeva con il mito. Eppure eccolo là.
Il gigante era tornato.
La via aperta dal mulinare del vento fra la chioma verde del campo di grano. E con tre passi era a valle ad inseguiva le donne che prima impaurite lo indicavano incredule, riparandosi gli occhi dal sole e, come faceva cent'anni prima, ne divorava la testa e ne beveva il sangue.
Emma guardava la scena. Tremava. La sua casa era sulla cima di un'altra collina ma a est. Era la collina dei querceti, ma di certo il gigante avrebbe potuto sradicare querce, quante ne voleva, anche con una sola mano, per farsi strada. Per il momento lo vedeva andare su e giù fra valle e campo di grano. Tre passi. Forse un occhio solo. Gambe e braccia scoperte, scarpe fatate.
Dalla valle grida e terrore. Era vietato seminare il grano!
Il vento turbinava e il campo cantava una nenia di morte.
Il gigante scese un'ennesima volta ma non risalì. Scomparve alla vista di Emma che decise di rientrare. Si sarebbero barricate dentro casa. Il gigante sembrava non potesse nulla contro le abitazioni. Avrebbero aspettato che scomparisse così come era apparso.
Nel mentre Emma volse le spalle all'orrore, percepì una presenza proprio dove il suo sguardo non poteva arrivare. Proprio là, un vecchio con un sacco di tela marrone sorrideva beffardo. Sugli occhi ciocche di capelli bianchi e una tesa di cappello di feltro. Emma non si voltò se non quando fu dentro casa, consapevole che se avesse chiuso la porta nessuno vivo o morto, umano o di altra natura, cosa o persona, avrebbe potuto seguirla. Ma il vecchio doveva sapere di arte Arcana. Di una porta di legno ad un'anta , Emma si trovò a doverne chiudere tre, a due ante ciascuna. Una di vetro, una di legno, una di ferro. Nonostante lo sforzo e la concentrazione che ci mise, le porte non si chiusero. Le ante si mescolavano e la povera confusamente cercava di far combaciare il vetro con il legno, o il legno con il ferro. Inutilmente.
Il vecchio le si parò davanti e ad Emma che lo guardò in viso, non rimase scelta: fece un passo indietro e il vecchio entrò.
“Porto con me i figli del gigante” esordì quello che era sicuramente uno stregone.
E mentre il vecchio fece per sciogliere il sacco dove presumibilmente stavano le creature, un'altra presenza si muoveva alle spalle di Emma. Scendeva dalle scale che portavano al piano superiore, era un ragazzo dai lineamenti delicati e molto pallido; portava una borsa a tracolla e sorrideva. Anche i suoi occhi nascosti da ciocche di capelli scuri. Emma però non si sentì privata di volontà come con il vecchio. Anzi tanta rabbia le salì dal petto perché facendo entrare il vegliardo aveva messo in pericolo le sue donne e ora che era di nuovo in sé avrebbe fatto di tutto per rimediare al suo sbaglio. Lasciò il vecchio che rideva a sciogliere un nodo troppo stretto e con deciso piglio si rivolse al ragazzo: “Chi sei? Chi ti ha dato il permesso di entrare? Solo il vecchio ha potuto! Tu non sei stato invitato, non hai varcato la porta segnata. Dimmi, chi ti ha detto di poter entrare in casa mia?”. “Sono il terzo figlio del gigante e sono entrato dal davanzale della finestra” disse indietreggiando la creatura. Ed Emma “Allora dà lì uscirai nel nome della Madre Bianca”. Il giovane al comando si piegò su se stesso come colpito nelle viscere. Il suo volto si fece rugoso e la pelle illividì. Emma lo incalzò “Vai via te lo ordino e te lo ripeto nel nome della Madre Bianca”. Stavolta la figura ormai risalita fino alla cima delle scale fu come risucchiata dalla finestra. Emma senti distintamente un tonfo. Era morto.
Scendendo trovò di nuovo il vecchio. Un corpo di bimbo di circa sei anni era a terra. Morto un altro figlio del gigante. Soffocato nel sacco. Ne rimaneva un altro. Un neonato. Una creatura perfetta almeno alla vista. Paffutello e roseo, dimenava manine e piedini nudi. Non piangeva ma articolava dolci suoni.
Il vecchio guardava e rideva beffardo.
Emma non aveva scelta.
Cercò nel cassone un telo di lino bianco; per compassione ne avrebbe avvolto il corpicino e poi lo avrebbe buttato nel pozzo. All'improvviso nel coprire il viso della creaturina che le sorrideva, ebbe la consapevolezza che il pericolo non erano i figli del gigante ma il vecchio. Infatti il vecchio non si era potuto muovere dall'ingresso, legato da qualche protezione di cui l'antica casa usufruiva. Invece il bimbo che stringeva fra le braccia aveva avuto accesso nella stanza attigua. Poi il vecchio non aveva detto alcunché sulla necessità di uccidere le creature ma sorrideva e lanciava occhiate di fuoco.
Allora Emma con calma finì di fasciare il bimbo e fece come per colpirne la testa con un pesante ferro da stiro. Ma si fermò appena in tempo potendo leggere il disappunto sul viso del vecchio che scomparve avvolto da una fiamma azzurra, lasciando di se solo l'odore di zolfo.
Emma scoppio in lacrime e strinse al petto la sua bimba.
Da quando la guerra le aveva portato via il marito e la carestia i due figli maschi spesso perdeva il senno. Ma la sua Alice ogni volta l'aveva  riportata alla realtà, dandole la forza di combattere i suoi demoni. Creatura perfetta, rosea e paffutella, dagli occhi scuri e profondi come quelli del padre.
« Ultima modifica: 02 Giugno 2010, 20:01:26 da ramingo »
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ramingo

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Re:Racconti
« Risposta #33 il: 02 Settembre 2011, 17:18:12 »

Contare.

Contare.
Non faceva altro da 197 giorni. Si proprio C E N T O N O V A N T A S E T T E  giorni di cui aveva contato le ore e talvolta anche le frazioni di ore.
28 pagine al giorno del libro preferito del momento.
4 o 5 biscotti nei 200 ml di latte caldo al mattino.
6 docce alla settimana di 7 minuti più una di 11 per lavare anche i capelli.
2600 metri al giorno e 4334 passi, uno più uno meno, 40 minuti al giorno all’incirca.
Delle rimanenti 23 ore e 20 minuti, 8 di lavoro, 2 dedicate al cibo, 5 e 40 ad attività varie, 7 da destinare al sonno notturno. In realtà ormai ne dormiva 5 effettive. I rumori della città che si sveglia invadevano il suo sonno la mattina presto e le rosicchiavano il necessario riposo. La sveglia suonava quando già aveva contato il 1620esimo secondo. Un’ora per uscire di casa. Tassativamente a meno un quarto: un solo minuto di ritardo avrebbe sfasatole attività del resto della giornata.

Nei giorni di lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, venerdì.
Prima attività: arrivare in ufficio.
Sottoattività
-   preparare il necessario per la pausa pranzo e lo spuntino pomeridiano da consumare in ufficio
-   adeguare il contenuto della borsa alle condizioni atmosferiche esterne
-   mettere a portata di mano chiavi e cellulare e spiccioli per il caffè
-   chiudere le finestre
-   ricordarsi delle vitamine
-   ricordarsi della spazzatura
-   chiudere a doppia mandata la porta
-   imboccare il via del percorso dei 2172 passi: vetrine – semaforo – edicola - barbone che espone fiori di metallo -fila alla posta ancora chiusa – strisce pedonali – pendolari che vanno di corsa – edicola - odore di cornetti e caffè – indianino che mette collanine e occhiali  in vetrina – attraversamento pedonale – odore di spezie e cipolla – nordafricani – il cinese che spazza il marciapiede – attraversamento pedonale – odore di pipì di gatto – fruttivendolo – attraversamento pedonale – fiori pendenti – bicicletta legata al tubo del gas – l’avviso VENDESI là da 15 anni – attraversamento pedonale – scuola – suo fratello nel sua dimora – attraversamento senza strisce – la macchina gialla – la spazzina sprint - giardini – cuccia senza il cane – tratto acciottolato – attraversamento pedonale – colleghi nel parcheggio – colleghi che vanno al bar – gente già in fila – “buongiorno”- arrivo

Seconda attività: vivere in ufficio.
Sottoattività:
-   prepararsi psicologicamente all’impossibilità di opporsi alla legge  di Murphy
-   aprire finestra, accendere  luci, condizionatore, stampante, fotocopiatrice e pc e nel mentre ripetere fra sè e sè, a mò di mantra, i corollari che derivano dalla legge suddetta:
1.   Niente è facile come sembra.
2.   Tutto richiede più tempo di quanto si pensi.
3.   Se c'è una possibilità che varie cose vadano male, quella che causa il danno maggiore sarà la prima a farlo.
4.   Se si prevedono quattro possibili modi in cui qualcosa può andare male, e si prevengono, immediatamente se ne rivelerà un quinto.
5.   Lasciate a se stesse, le cose tendono ad andare di male in peggio.
6.   Non ci si può mettere a far qualcosa senza che qualcos'altro non vada fatto prima.
7.   Ogni soluzione genera nuovi problemi.
8.   I cretini sono sempre più ingegnosi delle precauzioni che si prendono per impedir loro di nuocere.
9.   Per quanto nascosta sia una pecca, la natura riuscirà sempre a scovarla.
-   Importante: ricordarsi che se le cose sembrano andar bene, c'è qualcosa di cui non si sta tenendo conto
-   Prendere un caffè amarissimo al distributore
-   Fare sorrisi sforzati a chi incroci
-   Ritornare al pc e cominciare a pregare che ti permetta di lavorare
-   Tenere dei kleenex sulla scrivania per chi anche oggi ti dirà che ha problemi e piangerà perché ha girato per tanti uffici e solo tu gli cerchi un numero di telefono o gli dai un nome perché sta morendo: ha il cancro; perché le è morto il nipotino; perché la figlia la picchia; perché è vedovo; perché il marito ha la SLA.
-   Stamparsi in faccia interessamento per tutto quello che ti racconteranno
-   Ricordarsi di respirare quando parli con il capo
-   Sopravvivere alla giornata ricordandosi anche di mangiare e bere

Terza attività: Ritorno a casa
Sottoattività
-   Tornare a casa!
-   Fare un passo dopo l’altro
-   Dirsi: Tra poco sei a casa.
-   Fare un passo dopo l’altro
-   Arrivare al 1528esimo passo e lì aspettarsi di incontrarlo.

Si perché in questa terza attività del lunedì, martedì, mercoledì, giovedì e venerdì c’era una cosa che ancora cancellava i numeri. Il gattone nero che sornione stava al cancello del giardino. Aveva il pelo folto e lucido lucido. E la lingua rosa che spuntava dal muso. Era il re del giardino. E come tale andava a reclamar il suo possesso di ogni angolino, con regalità felina si intende. E stava là a guardarti e a dirti: “io si che son felice”.

Ma venerdì, il 198esimo giorno, al ritorno a casa, al cancello del giardino il gattone non solo non c’era, ma al suo posto c’era un esserino freddo e viscido, fragile e forte allo stesso tempo. Una tartarughina di terra, verde e marroncina. Immobile nel suo guscio. La sua posa non aveva niente di aggraziato. Le zampette storte, il guscio sbeccato nella parte sinistra. La testolina protesa in avanti come se stesse annusando l’aria. E la testa piegata, per poter osservare il mondo con un solo occhio per volta. E stava li a guardare e a dire: “io si che sono infelice”.

E il racconto finisce qui.

Per Emma non ci fu il 1529esimo passo, né un 199esimo giorno.
Da allora non contò più nulla.
« Ultima modifica: 09 Settembre 2011, 20:18:13 da ramingo »
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andama

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Re:Racconti
« Risposta #34 il: 04 Settembre 2011, 19:36:49 »

coplimenti !!sei fantastica..
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Re:Racconti
« Risposta #35 il: 05 Settembre 2011, 16:52:38 »

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Re:Racconti
« Risposta #36 il: 29 Giugno 2012, 23:05:27 »

APPUNTI

Una sedia rossa. Ecco cosa mi porto dentro dopo questi pochi giorni trascorsi a casa.
Affetto.
Un abbraccio che mi dice “non aver paura”. Che le cose possono andare storte, ma non bisogna arrendersi. Una porta chiusa ha pur sempre una chiave che apre. Se non ce la fai tu ci sono io. E se non si apre, a rimanere fuori siamo in due.
Luce. Intermittente, imbrigliata in una ragnatela. Luce che da alba si fa giorno. Luce che ha bisogno di guardiani.
Odore di buono.
Il sapore dei ricordi.
La consolazione per un dolore universale.
Ora mangio da sola con la paura che la gola gonfi.
Mi scrivi un sms e io penso che mi mancherai.
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